Alla fine, l’ha fatto. Come promesso in campagna elettorale, Donald Trump ha deciso di condurre gli Stati Uniti fuori dell’Accordo di Parigi, al cui successo - nel dicembre 2015 - aveva fortemente contribuito l’azione del suo predecessore alla Casa Bianca, Barack Obama.
Trump ha deciso di agire dopo il G7 di Taormina, durante il quale la frattura tra il leader americano e il resto del gruppo dei Grandi è apparsa difficilmente colmabile. Non è bastato nemmeno il tentativo last-minute di Papa Francesco, da sempre impegnato sui temi ambientali, a riportare il magnate sulla retta via.
Quella di Trump è una mossa fortemente populista e reazionaria. Una mossa che porta gli Stati Uniti, Paese d’avanguardia e motore del progresso tecnologico globale negli ultimi decenni, in una posizione di trincea su un tema chiave non solo per il futuro del pianeta, ma di rilevanza strategica per la proiezione geopolitica, economica e industriale di Washington nello scacchiere internazionale.
Trump, G7, Papa Francesco Le rigide posizioni di Trump sul clima hanno avuto l’effetto di spaccare il G7 riunitosi a Taormina. Nonostante dai primi giorni della sua campagna elettorale, la retorica del neo-eletto presidente fosse chiaramente contro ogni tentativo di rafforzamento della cooperazione globale in materia climatica, la comunità internazionale probabilmente sperava di poter smorzare la veemenza trumpiana sul tema.
Non era bastata nemmeno la nomina di Scott Pruitt, rinomato negazionista dei cambiamenti climatici, alla guida della Environmental Protection Agency (Epa) americana - e il conseguente svuotamento dei poteri dell’Agenzia -, a convincere i suoi interlocutori della risolutezza con la quale il presidente era pronto a scontrarsi sulle questioni climatiche.
Ma alla fine, i sei leader di Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia e Regno Unito hanno dovuto prendere necessariamente atto di una situazione probabilmente senza via di ritorno e spaccare con modalità senza precedenti la posizione del Gruppo su un tema di così grande rilevanza per il destino dell’umanità.
Anche Papa Francesco, autore dell’enciclica “Laudato si”, aveva provato ad ammorbidire la posizione di Trump regalandogli pubblicamente un volume sui cambiamenti climatici. Evidentemente, anche lui senza successo.
La strada è tracciata Trump o non Trump, la strada della decarbonizzazione è ormai tracciata a livello globale. Come detto, i G6 hanno posto il tema dei cambiamenti climatici al centro della loro agenda nonostante le divergenze con Washington. L’Unione europea continua la sua azione d’avanguardia e di leadership internazionale in materia climatica, come immediatamente sottolineato dalla Commissione e dal commissario per l’Energia e il Clima Canete.
L’elezione di Macron in Francia, e la sua decisione di nominare un ministro per la Transizione Ecologica (anziché per l’Energia) offre una chiara spinta propulsiva verso una ancora maggiore ambizione europea su questi temi.
Ma l’Europa non è più sola in questa battaglia globale, anzi. Perché se gli Stati Uniti, entrati nel club grazie alla sensibilità di Obama, se ne escono sbattendo la porta, ecco che nuovi attori internazionali annunciano (e dimostrano) di voler partecipare seriamente alla partita climatica.
Cina e India hanno infatti iniziato a muoversi in questo contesto, con Pechino (principale responsabile delle emissioni con il 29% del totale) fortemente impegnata in un percorso di decarbonizzazione tanto necessario a livello domestico quanto benvenuto sul piano globale.
Non dimentichiamo che l’impegno cinese, in partnership con gli americani, è stato tra i principali driver del successo dell’Accordo di Parigi.
E mentre Trump decide di smantellare brutalmente il piano di transizione energetica elaborato da chi l’ha preceduto nell’Ufficio Ovale (Clean Power Plan), il partito comunista al potere in Cina solo nel 2015 ha investito 103 miliardi di dollari in energie rinnovabili (il doppio di quanto fatto negli Stati Uniti), con l’obiettivo di stanziare oltre 360 miliardi di qui al 2020. A testimonianza dell’impegno (e della leadership) cinese su questo tema, è pronto un annuncio congiunto con l’Unione europea per sottolineare l’importanza dell’attuazione di Parigi.
Clamoroso autogol Purtroppo per Trump, l’azione cinese non si limita alla promozione di politiche di decarbonizzazione in ambito domestico. Nel 2016, mentre il presidente americano progettava di smantellare l’Epa, Pechino ha investito 32 miliardi di dollari in energie rinnovabili all’estero, tanto in paesi industrializzati come Germania e Australia, quanto in economie emergenti come Brasile, Cile, Indonesia, Egitto, Pakistan e Vietnam. Perché il cambiamento climatico è, volenti o nolenti, anche business.
Le dimensioni del mercato interno e l’aggressività commerciale della Cina sul piano internazionale possono garantire alle aziende cinesi vantaggi comparati eccezionali nei confronti dei competitor occidentali.
Da un lato ciò posiziona il Paese in prima fila nello sviluppo, produzione e commercializzazione di una serie di tecnologie destinate a una diffusione esponenziale su scala globale. Dall’altro, assicura un potente strumento di penetrazione politica, economica e sociale in aree e regioni chiave per gli interessi geostrategici di Pechino.
Nel mezzo di questa straordinaria rivoluzione tecnologica e industriale, stride l’obiettivo della Casa Bianca di salvare circa 50mila posti di lavoro nel settore del carbone, il cui numero di addetti (così come l’utilizzo della materia prima) è in costante e inesorabile declino. Una mossa miope, astorica, da parte dell’Amministrazione, che continua a sottovalutare il valore aggiunto e l’impatto positivo dell’industria low-carbon sul mercato del lavoro a stelle e strisce. Così come il suo sempre più importante ruolo di strumento di proiezione internazionale per il Paese.
Nicolò Sartori è Responsabile del Programma Energia, Clima e Risorse dello IAI.
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