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venerdì 15 dicembre 2017

domenica 18 giugno 2017

Parigi rinnegata. Stati Unit sempre più fiori dalla Comunità Internazionale

Usa fuori da Accordo di Parigi
Clima: la folle retromarcia di Donald Trump
Nicolò Sartori
01/06/2017
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Alla fine, l’ha fatto. Come promesso in campagna elettorale, Donald Trump ha deciso di condurre gli Stati Uniti fuori dell’Accordo di Parigi, al cui successo - nel dicembre 2015 - aveva fortemente contribuito l’azione del suo predecessore alla Casa Bianca, Barack Obama.

Trump ha deciso di agire dopo il G7 di Taormina, durante il quale la frattura tra il leader americano e il resto del gruppo dei Grandi è apparsa difficilmente colmabile. Non è bastato nemmeno il tentativo last-minute di Papa Francesco, da sempre impegnato sui temi ambientali, a riportare il magnate sulla retta via.

Quella di Trump è una mossa fortemente populista e reazionaria. Una mossa che porta gli Stati Uniti, Paese d’avanguardia e motore del progresso tecnologico globale negli ultimi decenni, in una posizione di trincea su un tema chiave non solo per il futuro del pianeta, ma di rilevanza strategica per la proiezione geopolitica, economica e industriale di Washington nello scacchiere internazionale.

Trump, G7, Papa Francesco
Le rigide posizioni di Trump sul clima hanno avuto l’effetto di spaccare il G7 riunitosi a Taormina. Nonostante dai primi giorni della sua campagna elettorale, la retorica del neo-eletto presidente fosse chiaramente contro ogni tentativo di rafforzamento della cooperazione globale in materia climatica, la comunità internazionale probabilmente sperava di poter smorzare la veemenza trumpiana sul tema.

Non era bastata nemmeno la nomina di Scott Pruitt, rinomato negazionista dei cambiamenti climatici, alla guida della Environmental Protection Agency (Epa) americana - e il conseguente svuotamento dei poteri dell’Agenzia -, a convincere i suoi interlocutori della risolutezza con la quale il presidente era pronto a scontrarsi sulle questioni climatiche.

Ma alla fine, i sei leader di Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia e Regno Unito hanno dovuto prendere necessariamente atto di una situazione probabilmente senza via di ritorno e spaccare con modalità senza precedenti la posizione del Gruppo su un tema di così grande rilevanza per il destino dell’umanità.

Anche Papa Francesco, autore dell’enciclica “Laudato si”, aveva provato ad ammorbidire la posizione di Trump regalandogli pubblicamente un volume sui cambiamenti climatici. Evidentemente, anche lui senza successo.

La strada è tracciata
Trump o non Trump, la strada della decarbonizzazione è ormai tracciata a livello globale. Come detto, i G6 hanno posto il tema dei cambiamenti climatici al centro della loro agenda nonostante le divergenze con Washington. L’Unione europea continua la sua azione d’avanguardia e di leadership internazionale in materia climatica, come immediatamente sottolineato dalla Commissione e dal commissario per l’Energia e il Clima Canete.

L’elezione di Macron in Francia, e la sua decisione di nominare un ministro per la Transizione Ecologica (anziché per l’Energia) offre una chiara spinta propulsiva verso una ancora maggiore ambizione europea su questi temi.

Ma l’Europa non è più sola in questa battaglia globale, anzi. Perché se gli Stati Uniti, entrati nel club grazie alla sensibilità di Obama, se ne escono sbattendo la porta, ecco che nuovi attori internazionali annunciano (e dimostrano) di voler partecipare seriamente alla partita climatica.

Cina e India hanno infatti iniziato a muoversi in questo contesto, con Pechino (principale responsabile delle emissioni con il 29% del totale) fortemente impegnata in un percorso di decarbonizzazione tanto necessario a livello domestico quanto benvenuto sul piano globale.

Non dimentichiamo che l’impegno cinese, in partnership con gli americani, è stato tra i principali driver del successo dell’Accordo di Parigi.

E mentre Trump decide di smantellare brutalmente il piano di transizione energetica elaborato da chi l’ha preceduto nell’Ufficio Ovale (Clean Power Plan), il partito comunista al potere in Cina solo nel 2015 ha investito 103 miliardi di dollari in energie rinnovabili (il doppio di quanto fatto negli Stati Uniti), con l’obiettivo di stanziare oltre 360 miliardi di qui al 2020. A testimonianza dell’impegno (e della leadership) cinese su questo tema, è pronto un annuncio congiunto con l’Unione europea per sottolineare l’importanza dell’attuazione di Parigi.

Clamoroso autogol
Purtroppo per Trump, l’azione cinese non si limita alla promozione di politiche di decarbonizzazione in ambito domestico. Nel 2016, mentre il presidente americano progettava di smantellare l’Epa, Pechino ha investito 32 miliardi di dollari in energie rinnovabili all’estero, tanto in paesi industrializzati come Germania e Australia, quanto in economie emergenti come Brasile, Cile, Indonesia, Egitto, Pakistan e Vietnam. Perché il cambiamento climatico è, volenti o nolenti, anche business.

Le dimensioni del mercato interno e l’aggressività commerciale della Cina sul piano internazionale possono garantire alle aziende cinesi vantaggi comparati eccezionali nei confronti dei competitor occidentali.

Da un lato ciò posiziona il Paese in prima fila nello sviluppo, produzione e commercializzazione di una serie di tecnologie destinate a una diffusione esponenziale su scala globale. Dall’altro, assicura un potente strumento di penetrazione politica, economica e sociale in aree e regioni chiave per gli interessi geostrategici di Pechino.

Nel mezzo di questa straordinaria rivoluzione tecnologica e industriale, stride l’obiettivo della Casa Bianca di salvare circa 50mila posti di lavoro nel settore del carbone, il cui numero di addetti (così come l’utilizzo della materia prima) è in costante e inesorabile declino. Una mossa miope, astorica, da parte dell’Amministrazione, che continua a sottovalutare il valore aggiunto e l’impatto positivo dell’industria low-carbon sul mercato del lavoro a stelle e strisce. Così come il suo sempre più importante ruolo di strumento di proiezione internazionale per il Paese.

Nicolò Sartori è Responsabile del Programma Energia, Clima e Risorse dello IAI.

martedì 23 maggio 2017

Strategia Energetica e Stati Uniti

Strategia Usa
Energia: Trump e l’eredità di Obama
Enrico Mariutti
12/05/2017
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La strategia energetica è da oltre mezzo secolo uno degli argomenti più controversi e articolati della politica statunitense.

Il prezzo, economico, politico e strategico, della crescente dipendenza dalle forniture energetiche estere, e in particolare mediorientali, ha innescato un lungo dibattito interno all’establishment americano in grado di influenzare profondamente la geopolitica globale dalla seconda metà del XX secolo ai giorni nostri.

Dal ‘resource nationalism’ di matrice araba alla Dottrina Carter, dal collasso dell’Unione Sovietica all’ingresso dei mercati emergenti nella Catena del Valore Globale, una lunga serie di fattori hanno contribuito a cristallizzare il paradigma energetico americano.

Da una parte carbone, nucleare, idroelettrico e gas naturale, destinati a sopperire sia al carico di base della rete elettrica che a gran parte del fabbisogno industriale e ai consumi domestici; dall’altra petrolio e derivati, destinati ad alimentare il vorace settore dei trasporti, il polo petrolchimico e nicchie degli altri segmenti. Mentre il primo pilastro della strategia energetica Usa era fondato prevalentemente sull’autoproduzione, il secondo era alimentato in larga parte dall’import.

L’avvento del nuovo millennio ha coinciso con la comparsa sulla scena di almeno tre game changers: lo sviluppo dei giacimenti di idrocarburi non convenzionali, l’ingresso di alcune tecnologie delle nuove fonti di energia rinnovabile (Nfer) nella fase di maturità e la presa di coscienza da parte della classe dirigente dei rischi connessi al cambiamento climatico e dei costi impliciti dell’inquinamento ambientale.

La presidenza Obama e il Rinascimento energetico Usa
L’amministrazione Obama, a dispetto di un packaging tendenzialmente ideologico e non scevro di sbavature retoriche, ha saputo sfruttare con intelligenza e lungimiranza tutte le possibilità offerte dal nuovo scenario. Nel corso dei due mandati democratici la produzione di petrolio negli Stati Uniti è aumentata del 66%, l’aumento più marcatoa partire dal dopoguerra, e quella di gas naturale del 31%, uno degli aumenti più consistenti dell’ultimo secolo.

Malgrado l’antagonismo che tradizionalmente contrappone, seppur più nell’immaginario collettivo che nella realtà, fonti rinnovabili e combustibili fossili, il drastico ribasso dei costi d’impianto, strettamente correlato alla contrazione del prezzo dell’energia, sommato agli incentivi fiscali federali previsti dal Clean Energy Incentive Program, ha innescato uno straordinario sviluppo delle Nfer.

Tra il 2009 e il 2016 l’output di energia eolica (impianti di scala industriale) è cresciuto del 206%, mentre quello di energia solare (fotovoltaico + termodinamico) del 3900%, alimentando un florido indotto industriale e contribuendo alla riduzione delle emissioni fortemente voluta dal presidente nell’ambito del più ampio programma di contrasto al cambiamento climatico globale.

D’altronde, il fenomeno che più di ogni altro ha segnato la presidenza Obama è stato il rinnovamento infrastrutturale, stimolato dal governo federale attraverso una serie di provvedimenti tra cui spicca il Clean Power Plan, adottato dall’Environmental Protection Agency (Epa) nel quadro del Climate Action Plan il 3 agosto 2015.

L’introduzione di limiti progressivi alle emissioni delle centrali termoelettriche ha infatti imposto agli operatori di settore massicci investimenti nell’adeguamento infrastrutturale, che hanno avuto effetti a cascata su tutta la powergrid, aumentando l’efficienza complessiva della rete.

L’International Energy Agency stima che nel solo 2016 gli investimenti confluiti nel settore elettrico americano siano stati pari a 93 miliardi di dollari, di cui 38 destinati alleNfer e 48 al potenziamento della rete di trasmissione e in quella di distribuzione. Il Rinascimento energetico dell’era Obama ha però prodotto un danno collaterale: la crisi dell’industria del carbone. Ma al contrario delle apparenze non si è trattato di un assassinio politico.

Il carbone ucciso da un nuovo paradigma
Nel declino delle centrali coal-fired, infatti, è nascosta la chiave per interpretare l’eredità di Obama: non una rivoluzione energetica, ma una rivoluzione industriale. Anche se intuitivamente è la necessità il motore primo del progresso, uno sguardo più accurato permette di individuare nell’abbondanza il lubrificante che accelera l’avanzamento delle comunità umane. Abbondanza di risorse, di conoscenze, di capitali, di energia, di tensione culturale e psicologica verso il futuro.

L’amministrazione Obama ha indubbiamente beneficiato di fattori pregressi o indipendenti dal disegno politico, come la cosiddetta Shale Revolution, una lunga fase rialzista sui mercati internazionali delle commodities energetiche o l’abbondanza di liquidità nei circuiti finanziari, miscelando con lungimiranza le componenti dell’amalgama. Ma anche aggiunto un ulteriore, decisivo, ingrediente: un incentivo progressivo e coercitivo all’innovazione.

La normative Epa e i decreti presidenziali hanno solamente imposto agli operatori di settore ciò che già il mercato avrebbe dovuto, teoricamente, imporre loro: la continua ricerca di maggiore efficienza.

Nel corso degli ultimi decenni, infatti, la struttura oligopolistica del mercato energetico americano e la scarsa propensione agli investimenti strutturali e infrastrutturali degli operatori, radicata nella stessa natura del settore, hanno formato un collo di bottiglia a livello economico-finanziario, rallentando lo sviluppo industriale.

L’obiettivo di un sostanziale abbattimento delle emissioni è stato quindi centrato attraverso strumenti di crescita e sviluppo, piuttosto che per mezzo di una decrescita dei consumi. Mentre il settore dell’Oil&Gas e quello delle Nfer hanno saputo sfruttaregli stimoli endogeni per evolversi, l’industria del carbone è entrata in crisi.

Le ragioni di questo rapido declino, però, vanno ricercate nella storia e nelle caratteristiche specifiche del comparto piuttosto che in quelle dei vincoli ambientali imposti dall’amministrazione. E nell’avvento di un nuovo paradigma industriale fondato su nuove necessità e nuove possibilità.

Enrico Mariutti, laureato in storia antica presso la Sapienza, ha conseguito un Master di II livello in Geopolitica e Sicurezza Globale; attualmente collabora con l’Istituto Alti Studi di Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG).

mercoledì 26 aprile 2017

Clima: contro ogni logica

Eppur si scalda
Trump e i cambiamenti climatici
Agime Gerbeti
19/04/2017
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All’inizio di marzo sono state pubblicate le previsioni di bilancio dell’Amministrazione Trump, dalle quali si evince che all’Epa (Environmental Protection Agency), già affidata al “negazionista” Scott Pruitt, verranno tagliati i fondi in misura pari a circa il 30 per cento.

Il presidente statunitense non ha poteri di bilancio reali e la proposta deve passare al vaglio del Congresso. Ciononostante, tra nomine e proposte, motivi per una certa trepidazione nell’ambito scientifico e specificamente in quello climatico ed energetico esistono. In questo contesto la marcia della scienza del 22 aprile a Washington ha un chiaro motivo d’essere.

Progetti sconcertanti e proclami che indignano
Sconcerta che un Paese come gli Usa che hanno costruito la propria supremazia economica su quella tecnologica, e che primeggiano nella classifica del maggior numero di premi Nobel (quasi triplicando il numero del secondo classificato, 363 contro i 124 del Regno Unito), intenda tagliare i fondi per la ricerca.

L’azione politica del presidente Trump comincia a farsi sentire e non solo in termini militari. In tre mesi, ci sono stati molti proclami che hanno indignato le opposizioni statunitensi e i liberal europei, ma pochi fatti. Era come se l’infuocata campagna elettorale non avesse ancora emesso un giudizio incontrovertibile, Trump appariva un presidente non ancora pienamente legittimato.

Ma questo non è mai stato in discussione, Trump è stato eletto legittimamente. Come è altresì ragionevolmente legittimo il suo negazionismo climatico. Il magnate ne ha fatto uno dei cavalli di battaglia della campagna elettorale: il che significa che chi lo ha votato ritiene che il cambiamento climatico non esiste o che non sia da attribuire alle attività umane.

Nessuno è autorizzato a pensare diversamente: gli americani sono d’accordo con il loro presidente, perché questa è la democrazia, ossia “la peggior forma di governo ad eccezione di tutte le altre (1)”.

Nessuna catastrofe e il peso delle lobby
I tagli di bilancio non sono l’apocalisse per un semplice motivo logico: se i cambiamenti climatici sono una realtà scientifica indiscutibile, come ritenuto dalla quasi totalità degli scienziati, allora non sarà il 30% di budget in meno a cambiare le cose. Se, invece, l’antropogenesi dei cambiamenti climatici è un colossale ed epocale abbaglio, allora non ci sarà alcun danno derivante da un minor impegno economico statunitense.

Né appare catastrofico il recentissimo ordine esecutivo “Energy Independence” con il quale il presidente Trump intende cancellare ogni azione (invero blanda e tardiva (2)) del suo predecessore Obama sulle politiche climatiche.

In fondo, gli Stati Uniti non hanno mai ratificato il Protocollo di Kyoto e, quanto al recente Accordo di Parigi, possono essere legittimamente sollevate ampie perplessità sul carattere vincolante degli obiettivi. Di fatto gli Usa non hanno mai voluto, con nessuna Amministrazione, dovere rendere conto alla comunità internazionale delle loro politiche energetiche e ambientali.

Eppure, gli interessi legati alle fonti rinnovabili, all’efficienza energetica o, più semplicemente, al gas come vettore a minori emissioni sono ormai talmente radicati anche in America che le lobby relative hanno un peso persino maggiore di quelle tradizionalmente legate ai fossili.

Così, ad esempio la stessa Exxon, società da cui proviene il segretario di Stato Rex Tillerson, con una lettera inviata al consigliere per l’energia di Trump, David Banks, ha già invitato l’Amministrazione a restare nel consesso delineato dall’Accordo di Parigi. Il motivo è facile: il gas può contribuire a limitare le emissioni e la Exxon produce gas e non carbone.

Più in generale non preoccupano provvedimenti che sono nella sostanza e negli obiettivi antistorici, perché hanno già in sé il germe del fallimento. Il ricorso al carbone o agli olii combustibili per la generazione elettrica appare ormai solo come una minaccia sempre meno credibile.

L’opinione pubblica europea, americana e cinese ha raggiunto livelli di consapevolezza e rivendicazione del proprio diritto alla salute che il ricorso a questi vettori energetici può essere fatto solo come una disperata difesa industriale, come una base di trattativa utilizzando “materia energetica” economica.

La vera minaccia è la direzione della ricerca
Quello che dovrebbe preoccupare veramente non è tanto l’approccio “muscolare”, non sono i fondi persi, ma il modo in cui verranno impiegati i soldi che restano. Se, ad esempio, venissero finanziate solo le ricerche funzionali a dimostrare che l’aumento delle temperature non esiste o facessero carriera o avessero visibilità solo quegli scienziati e quei ricercatori che tentassero di dimostrare che i cambiamenti climatici non dipendono dalle attività umane, allora sì che il pericolo oscurantista della controriforma energetica e ambientale sarebbe davvero minaccioso.

Perché è questo che sul lungo periodo potrebbe effettivamente cambiare la prospettiva. L’informazione internettiana diffusa, pseudo scientifica, magari avvalorata dai nuovi scienziati premiati dalle politiche negazioniste, potrebbero penetrare nella coscienza collettiva, insinuarsi nelle verità utili e nel sentimento comune.

Per una strana legge del mondo la verità è pesante, faticosa, poco attrattiva, il fake facile, immediato, virale e digeribilissimo. Si dirà che non è possibile dimostrare il contrario della Verità. Ebbene, si ricordi che è sempre stato fatto, è sempre stato utile ed economico. In fondo che sia la Terra che gira intorno al Sole o viceversa, potrebbe essere solo un fatto di prospettive relative.

(1) Churchill “Indeed, it has been said that democracy is the worst form of government except all those other forms that have been tried from time to time”. Discorso alla Camera dei Comuni (11 November 1947).
(2) https://www.linkedin.com/pulse/tempo-di-proclami-mr-obama-agime-gerbeti
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Agime Gerbeti è docente Lumsa.

venerdì 10 febbraio 2017

Clima ed ambiente

L’Ue e il clima
Il futuro della politica ambientale europea
Matteo Malacarne
16/02/2017
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Attualmente sono in molti a pensare che gli impegni presi durante la COP21 non bastino a limitare gli effetti più dannosi e irreversibili del cambiamento climatico, una preoccupazione di particolare rilevanza date le temperature record registrate l’anno scorso. In un momento di grandi incertezze riguardo al futuro dell’Accordo di Parigi, suscitate dalla nuova Amministrazione americana, sono più che mai necessarie politiche ambientali forti.

Durante la seduta plenaria del Parlamento europeo di Strasburgo del 15 febbraio è stata approvata una riforma importante del sistema per lo scambio di quote di emissioni in Europa (European Union EmissionsTrading System, ETS).

La revisione dello schema, proposta dalla Commissione europea nel 2015, dimostra la forte volontà politica dell’Unione europea, Ue di andare avanti nella lotta al riscaldamento del pianeta.

L’Europa in prima linea nell’azione climatica
L’Ue, nonostante le crisi che sta attraversando, come quella dei migranti o la vicenda della Brexit, negli ultimi anni ha saputo sviluppare un’agenda climatica ambiziosa, confermando la sua leadership mondiale. Ciò è stato reso possibile da una forte presenza istituzionale sulle sfide ambientali, ma anche grazie a partiti ecologisti influenti, un’opinione pubblica favorevole e organizzazioni non governative molto attive.

Di recente la Commissione europea ha presentato un pacchetto legislativo per stimolare la transizione e la modernizzazione dell’infrastruttura energetica dell’Unione. Tra gli obiettivi principali della propostavi è quello di privilegiare le energie rinnovabili, garantendo però la sicurezza dell’approvvigionamento elettrico e condizioni di accesso alla rete eque per tutti i consumatori, tutelando quelli più vulnerabili.

Il pacchetto si iscrive nel progetto dell’Unione dell’Energia, una componente chiave del programma politico del presidente Juncker, il cui scopo è di collegare ulteriormente i mercati energetici degli Stati membri, incoraggiando questi ultimi a collaborare ed aiutarsi reciprocamente.

Se, per esempio, le economie più grandi,come Francia o Germania, decidessero di aumentare gli aiuti finanziari ai Paesi dell’Europea dell’Est, questi potrebbero a loro volta accettare di chiudere le loro centrali a gas o a carbone più inquinanti. Il fine ultimo è di cambiare l’intero sistema energetico europeo, sostituendo il tradizionale modello nazionale - centralizzato e basato sui combustibili fossili - con uno più decentrato, dinamico e sostenibile.

Istituito nel 2005, l’ETS è la pietra angolare della politica climatica europea ed è la prima struttura di questo genere, oltre che la più estesa (tratta infatti oltre tre quarti degli scambi internazionali di CO2). Il sistema limita il volume di gas ad effetto serra che può essere emesso da certe industrie e opera secondo principi commerciali: le imprese ricevono o acquistano quote di emissioni (crediti) che possono poi scambiarsi l’una con l’altra.

Il voto del 15 febbraio, sulla riforma dello schema, è stato un altro passo importante per raggiungere l’obiettivo dell’Ue di ridurre le proprie emissioni di almeno il 40% entro il 2030. Gli emendamenti avanzati dalla Commissione e approvati dal Parlamento europeo sono principalmente volti ad accelerare la diminuzione delle quote e rinforzare il mercato di scambio. La proposta introduce anche meccanismi di sostegno per il finanziamento delle cosiddette “tecnologie verdi”, e per il rinnovamento complessivo del settore dell’energia.

Il comitato per l'ambiente del Parlamento (ENVI), riunito in sessione straordinaria il 15 dicembre scorso, aveva già apportato diverse modifiche alla riforma, per garantire alle industrie europee ad alto consumo energetico di non ritrovarsi svantaggiate sui mercati internazionali. Questo aveva generato le proteste di alcune organizzazioni non governative, ad esempio il Climate Action Network, ma aveva permesso al testo di essere approvato con una larghissima maggioranza, cosa che accade raramente sui dossier climatici.

Una riforma dell’ETS più ambiziosa
Il fatto chei crediti di emissione possano essere venduti o acquisiti liberamente, come in qualsiasi altro mercato, è un vantaggio ovvio del sistema di scambio. Iprezzi però sono scesi oltremisura negli ultimi anni, in parte per colpa della crisi finanziaria del 2008, ostacolando di parecchio il successo dello schema. Attualmente, il costo attribuito alla produzione di CO2 (il “carbon price”) fluttua attorno ai 5€ per tonnellata, una cifra senza dubbio troppo bassa per stimolare le imprese europee a fare grossi investimenti nel “cleantech”. Inquinare rimane semplicemente l’opzione meno cara per molte industrie.

L’accelerazione della diminuzione di quote disponibili sul mercato ha anche lo scopo di fare salire i prezzi gradualmente. Ma sarà abbastanza per fare ripartire l’innovazione “low-carbon” ancora troppo lenta in Europa? Aumentare il “carbon price” ad un minimo di 20-30€, come suggerito dallo studio d’impatto originale della Commissione e da molti altri analisti, darebbe senz’altro incentivi più chiari alle aziende europee per modernizzarsi e diversificarsi ulteriormente, mettendo a frutto attrezzature più efficienti e non inquinanti.

Un “carbon price” più alto significherebbe ugualmente maggiori ricavi annui per il budget dell’Unione. Questi potrebbero essere usati per finanziare la ricerca nelle tecnologie pulite, per la quale nell’ultimo decennio i sussidi europeisi sono visti progressivamente ridotti. Ci sono anche molte opportunità di investimenti da sfruttare all’estero.

Durante la COP22 a Marrakech, ben quarantotto tra le nazioni più vulnerabili agli effetti del riscaldamento climatico – il gruppo del Climate Vulnerable Forum – si sono impegnate a produrre il loro fabbisogno energetico interamente da fonti ecosostenibili entro il 2050. Assistere questi Paesi sovvenzionando progetti di infrastruttura potrebbe contribuire a riportare l’Ue all’avanguardia nel settore delle energie rinnovabili.

Un’opportunità per l’Europa
L’economia mondiale si trova in una fase di cambiamenti epocali e la sua “decarbonizzazione” è oramai irreversibile. L’Ue, come altre superpotenze, ha molti incentivi - inclusi quelli di naturaeconomica - a mantenere e intensificare le sue politiche ambientali, anche in un periodo di dubbio sul futuro dell’Accordo di Parigi.

La riforma dell’ETS arriva dunque in un momento cruciale e mostra quanto l’Europa sia decisa a proseguire e sviluppare il suo programma climatico. Tuttavia per rinforzare realmente il sistema di scambio è anche necessario alzare rapidamente il prezzo delle quote. Non solo aiuterebbe l’Ue a ridurre più velocemente le proprie emissioni di gas ad effetto serra, ma galvanizzerebbe anche il rinnovamento dell’industria europea stimolando l’innovazione “low-carbon”.

Matteo Malacarne, laureato in ingegneria civile e ambientale presso l’Imperial College di Londra, ha lavorato nel settore dell’Oil & Gas e all’European Political Strategy Centre della presidenza della Commissione europea; attualmente è Public Affairs Manager presso EU Strategy, società di consulenza in affari istituzionali europei.

lunedì 16 gennaio 2017

Clima. che cosa ci aspettiamo dall'America

L'America di Trump
Effetto Trump su clima ed energia mondiale 
Valeria Termini
15/11/2016
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L’elezione di Donald Trump avrà un impatto dirompente sullo scenario energetico globale. Le incongruenze del suo programma destano però seri dubbi.

Trump prospetta al contempo “una rivoluzione energetica che trasformerà l’America in un netto esportatore di energia” e una politica protezionista che la allontanerà dai Trattati commerciali internazionali; “la fine del supporto alle fonti rinnovabili”,“la revisione di tutte le regole avverse al carbone” insieme alla promessa di una “migliore protezione dell’aria e dell’ambiente”.

Proposte incompatibili che imporranno scelte necessarie. Dipenderanno anche dalla nuova squadra di governo e stando ai consiglieri oggi in carica -come Michael Catanzaro e M. McKenna, che appartengono alle lobby della petrolchimica e del carbone - è prevedibile che gli obiettivi segneranno una svolta e non saranno in sintonia con gli indirizzi più avanzati per il lungo periodo.

La situazione del mondo in cui Trump si inserisce è caratterizzata da tre elementi chiave.

Trump e la transizione verso le rinnovabili
In primis la transizione energetica verso un uso esteso delle fonti rinnovabili, reso possibile dalla rivoluzione tecno-digitale. Su di essa si sta costruendo il percorso innovativo di una “elettrificazione intelligente e pulita” nell’industria, nei trasporti e nella vita quotidiana; con il potenziale espansivo insito nelle rivoluzioni tecnologiche, ma anche con la “distruzione schumpeteriana” che colpisce le imprese coinvolte dal ridimensionamento delle fonti fossili, cui è richiesto uno sforzo straordinario di riorganizzazione.

Trump è vicino ai grandi industriali dei combustibili fossili, i quali oggi soffrono per la concorrenza delle fonti rinnovabili e per la regolazione ambientale dell’Environmental Protection Agency (l’Epa, resa nota dalla denuncia contro la truffa ambientale della Volkswagen).

Di certo l’Epa entrerà nel mirino del nuovo Presidente - la prima nomina per la transizione dei poteri nell’Epa è Myron Ebell, direttore dell’ufficio studi degli industriali del carbone. A ciò si accompagnano l’abbandono dichiarato del sostegno alle fonti rinnovabili e la fine dell’indirizzo cooperativo e finanziario con la United Nation framework convention on climate change.

Gli Accordi sul Cambiamento Climatico si sono conclusi con successo nei negoziati di COP 21 a Parigi (dicembre 2015) e di essi il patto tra Xi Jin Ping e Barack Obama è parte fondante.

In questi giorni è in corso a Marrakech (7-14 novembre) la COP 22 per consolidare i risultati. È facile prevedere tuttavia che Trump disattenda in parte, in linea al suo programma, gli impegni assunti da Obama - ridurre le emissioni di CO2 statunitensi del 26-28% al 2025 - soprattutto perché l’accordo non prevede sanzioni; è difficile invece immaginare la reazione della Cina, principale inquinatore tra i 200 Paesi firmatari.

Il rischio è che l’Europa si trovi ancora una volta isolata nel sostenere l’onere competitivo di impegni vincolanti assunti unilateralmente (una riduzione di CO2 dell’80% nel 2050 rispetto al 1990), già incorporati nella regolazione europea.

Gas e petrolio nella geopolitica di Trump
Il secondo elemento, in chiave geopolitica è la nuova configurazione dei rapporti tra Paesi produttori e Paesi consumatori di gas e petrolio attivata in questo decennio.

Un eccesso di offerta ha provocato la riduzione del prezzo del gas e il crollo del prezzo del petrolio (oggi quotato 43,5 $/barile, sotto il livello di guardia dei 50 $/barile), destinati a mantenersi bassi nel prossimo orizzonte temporale, poiché l’Opec non è in grado di approvare una politica di quote che limiti la produzione.

Incurante di ciò, Trump propone di autorizzare subito la costruzione del grande oleodotto Keystone XL dal Canada al Golfo del Messico, bloccato perché non conforme agli standard ambientali, per trasportare petrolio da esportare (830 mila barili/g di capacità).

Per il gas, invece, prevedere la politica che Trump imposterà sull’estero con il sostegno di un Congresso favorevole è complesso: è cruciale capire come si svilupperà il suo rapporto con Vladimir Putin.

Trump dovrà scegliere tra due opzioni scomode: privilegiare la via delle esportazioni (Gnl), favorendo così i produttori statunitensi con una riduzione dell’offerta interna di gas che fa lievitare i prezzi, ma scontentando Putin che dovrà fare i conti con la concorrenza Usa sul mercato europeo, suo principale mercato di sbocco; oppure porre vincoli alle esportazioni e concentrare l’offerta sul mercato interno, favorendo così la Russia, ma lasciando in sofferenza i produttori Usa.

L’alternativa sarebbe una spartizione del mercato globale tra i due principali giocatori, il Pacifico agli Stati Uniti e l’Europa alla Russia; ma i mercati reali sono complessi da governare.

L’indipendenza energetica Usa che favorisce Putin
Infine, l’indipendenza energetica Usa, obiettivo primario del programma, consolida la lontananza di Trump dai Paesi produttori del Medio Oriente (se si esclude un possibile rapporto diretto con Benjamin Nethanyau), per il controllo dei quali potrebbe affidare a Putin un ruolo primario.

In cambio potrà impegnarsi con Putin in una politica compiacente nei confronti dei gasdotti che connettono la Russia all’Europa e che sono ancora in stallo perché contrastano con le regole anti monopoliste europee e con la strategia dell’Energy Union di diversificazione delle rotte e delle fonti.

Questi furono fortemente osteggiati dall’amministrazione di Obama, insieme alla Commissione europea, perché volti ad aggirare l’Ucraina nella fornitura di gas russo all’Europa - Nord Stream 2 nel corridoio settentrionale e il Turkish Stream in quello meridionale, rinvigorito dal recente accordo tra Putin e Rcep Tayyp Erdogan sull’energia.

Accordi bilaterali sui gasdotti tra Russia e Paesi membri indeboliscono la Commissione nei confronti del principale monopolista, con il quale Mogherini e il commissario all’energia Maros Sefcovic hanno tentato di costruire un negoziato europeo, superando gli egoismi nazionali.

E Nord Stream2 rappresenta il vulnus peggiore per il nostro Paese e per l’Ue, in quanto concentrerebbe l’offerta del gas russo in Germania (110 mld m3 di capacità), rischiando di rendere superflua la produzione di gas dal Mediterraneo, che coinvolge Italia, Balcani e Paesi meridionali nelle forniture di gas all’Europa.

Per l’Europa il quadro non è dunque positivo in nessuno dei tre domini richiamati. E l’Italia? Il nostro Paese ha un ruolo da giocare, non solo rafforzando infrastrutture e rapporti storici e rinnovati con i Paesi della sponda meridionale del Mediterraneo, ma anche svolgendo una funzione attiva nei Balcani, dove le basi per la cooperazione energetica sono attive e promettenti.

Valeria Termini è Commissario dell’Autorità per l’Energia elettrica, il gas e il Sistema Idrico (Aeegsi); Vice Presidente del Council of European Energy Regulators (Ceer).

martedì 10 gennaio 2017

Turbolenze sul Clima tra Europa e Stati Uniti

L’America di Trump
Usa-Ue: rischio lite sull’ambiente 
Lorenzo Colantoni
07/01/2017
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La nomina di Rex Tillerson, Ceo di Exxon, come segretario di Stato, quella di Scott Pruitt, un negazionista del cambiamento climatico, a capo dell’Epa, l’agenzia per l’ambiente statunitense, così come la lunga sequela di tweet, dichiarazioni e attacchi all’Accordo di Parigi sul clima sono alcuni degli elementi che inducono a pensare che sarà messo a rischio dall’avvento dell’amministrazione di Donald Trump.

Considerando il ruolo di leadership climatica e ambientale dell’Unione europea, Ue, e le frequenti occasioni di confronto con gli Stati Uniti sul tema, come il Tttip, lo scontro potrebbe sembrare inevitabile.

Tutto questo potrebbe anche andare in maniera differente. La tendenza al protezionismo potrebbe limitare le ingerenze statunitensi in ambito energetico, le minacce portate in campagna elettorale contro la politica climatica potrebbero essere meno consistenti di quanto previsto e il successo nella riduzione delle emissioni potrebbe avvenire più per fattori economici che politici.

Un quadro che, seppur più ottimista di quanto si potrebbe pensare, dovrà affrontare il rischio dell’incertezza che ancora pesa su quello che effettivamente sarà l’amministrazione Trump.

Il futuro dell’Accordo di Parigi
Il settore dove l’elezione di Trump ha suscitato le maggiori preoccupazioni è stato senza dubbio quello del clima, con il neopresidente autore di numerose dichiarazioni in cui sosteneva il suo impegno per far uscire gli Stati Uniti dall’accordo. Cosa simile era già accaduto con George W. Bush e la sua decisione di ritirarsi dal Protocollo di Kyoto.

Trump sembra però aver già cambiato idea. In un’intervista rilasciata il 22 novembre al New York Times riconosceva una “qualche connessione” tra l’attività umana e il cambiamento climatico.

Se queste dichiarazioni potrebbero essere allo stesso modo sconfessate, è però anche difficile pensare che si giunga allo scontro con l’Ue, in quanto climate leader, su un’eventuale opposizione statunitense: la struttura dell’Accordo di Parigi è basata sulle Intended Nationally Determined Contributions, Indcn, proposte che i singoli Paesi fanno per indicare il proprio impegno, ma che non sono soggette a nessuna revisione obbligatoria.

Se l’Accordo di Parigi difficilmente le prenderà in considerazione, potrebbero invece essere sviluppate a livello settoriale: recentemente i paesi membri dell’Icao, l’agenzia dell’Onu per l’aviazione, hanno firmato un importante accordo per la riduzione delle emissioni da trasporto aereo, un tema su cui le compagnie di trasporto internazionali, e soprattutto americane, hanno avversato l’Ue per anni.

L’Imo, l’equivalente marittimo dell’Icao, ha bloccato questa decisione per il momento, ma questo potrebbe cambiare in futuro. Decisioni simili potrebbero essere un terreno di scontro con l’Ue, ma è difficile prevedere come e in che proporzione, proprio per la forte incertezza sia a livello istituzionale, su quale reale impatto queste misure avranno, che dal punto di vista di Trump, la cui politica ambientale internazionale è molto più incerta di quanto minacci a livello domestico.

Più che uno scontro diretto come ai tempi di Kyoto, quello che si può prevedere è una progressiva riduzione di impegno da parte della Casa Bianca.

Effetto Tillerson sullo sfruttamento delle riserve di idrocarburi
La scelta di Tillerson come segretario di Stato aumenta l’attenzione riservata all’energia, ma per comprendere dove questo potrà incrociare il percorso, e le politiche, dell’Ue, bisognerebbe sciogliere dubbi e risolvere contraddizioni inerenti alla politica di Trump sull’energia.

Da un lato compagnie come Exxon sono impegnate non sono negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo, incluso, in passato, anche il turbolento Mar cinese meridionale. La presenza di Tillerson potrebbe quindi portare a un maggior impegno statunitense nello sfruttamento delle riserve di idrocarburi mondiali. In particolare in aree come il Mediterraneo orientale, dove l’esplorazione è ancora limitata, le risorse potenzialmente numerose e gli interessi diffusi (la Russia, non a caso, ha recentemente comprato una quota del giacimento egiziano Zohr da Eni).

Si potrebbe addirittura pensare a un’esportazione della shale revolution a livello mondiale, soprattutto in aree come il Sud America, l’Algeria o la Cina, dove le riserve sono le più promettenti, ma l’attività esplorativa ancora minima. Tutto questo però contraddice la politica di non intervento annunciata da Trump; bisognerà quindi vedere la coerenza tra le dichiarazioni e le effettive politiche prese dal presidente e dai suoi collaboratori.

Simile è il destino dell’esportazione di prodotti energetici dagli Stati Uniti all’Europa, soprattutto il gas. Il desiderio del tycoon di sostenere l’industria energetica Usa ha come necessità quella di potenziare le esportazioni, che al momento sono bloccate dal rigido controllo del Congresso.

Questo però contraddice i suoi intenti protezionistici, in particolare la promessa di rendere gli Stati Uniti energeticamente indipendenti; un evento che potrebbe sì accadere, ma con un petrolio e un gas che al Paese probabilmente converrà soprattutto esportare. In tutto questo è difficile pensare ad un’opposizione di qualche genere da parte dell’Ue, neutrale sul fracking e che importa senza limiti il petrolio dalle sabbie catramose canadesi, dall’alto impatto ambientale.

L’ambiente e il commercio
Il settore in cui la presenza di Trump potrebbe aiutare la discussione ambientale tra Europa e Stati Uniti è quello del commercio internazionale. Molti analisti hanno già annunciato la morte del Ttip. Il trattato avrebbe messo forte pressione sulle politiche ambientali europee, creando tensioni tra Stati Uniti ed Ue, ma qualora questo non andasse in porto non ci sarebbe nessun effetto.

Lorenzo Colantoni è Junior Fellow presso lo IAI (Twitter@colanlo).