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sabato 31 dicembre 2016

lunedì 21 novembre 2016

Turbolenze su prospettive non certo rosee

Usa 2016
Effetto Trump su clima ed energia mondiale 
Valeria Termini
15/11/2016
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L’elezione di Donald Trump avrà un impatto dirompente sullo scenario energetico globale. Le incongruenze del suo programma destano però seri dubbi.

Trump prospetta al contempo “una rivoluzione energetica che trasformerà l’America in un netto esportatore di energia” e una politica protezionista che la allontanerà dai Trattati commerciali internazionali; “la fine del supporto alle fonti rinnovabili”,“la revisione di tutte le regole avverse al carbone” insieme alla promessa di una “migliore protezione dell’aria e dell’ambiente”.

Proposte incompatibili che imporranno scelte necessarie. Dipenderanno anche dalla nuova squadra di governo e stando ai consiglieri oggi in carica -come Michael Catanzaro e M. McKenna, che appartengono alle lobby della petrolchimica e del carbone - è prevedibile che gli obiettivi segneranno una svolta e non saranno in sintonia con gli indirizzi più avanzati per il lungo periodo.

La situazione del mondo in cui Trump si inserisce è caratterizzata da tre elementi chiave.

Trump e la transizione verso le rinnovabili
In primis la transizione energetica verso un uso esteso delle fonti rinnovabili, reso possibile dalla rivoluzione tecno-digitale. Su di essa si sta costruendo il percorso innovativo di una “elettrificazione intelligente e pulita” nell’industria, nei trasporti e nella vita quotidiana; con il potenziale espansivo insito nelle rivoluzioni tecnologiche, ma anche con la “distruzione schumpeteriana” che colpisce le imprese coinvolte dal ridimensionamento delle fonti fossili, cui è richiesto uno sforzo straordinario di riorganizzazione.

Trump è vicino ai grandi industriali dei combustibili fossili, i quali oggi soffrono per la concorrenza delle fonti rinnovabili e per la regolazione ambientale dell’Environmental Protection Agency (l’Epa, resa nota dalla denuncia contro la truffa ambientale della Volkswagen).

Di certo l’Epa entrerà nel mirino del nuovo Presidente - la prima nomina per la transizione dei poteri nell’Epa è Myron Ebell, direttore dell’ufficio studi degli industriali del carbone. A ciò si accompagnano l’abbandono dichiarato del sostegno alle fonti rinnovabili e la fine dell’indirizzo cooperativo e finanziario con la United Nation framework convention on climate change.

Gli Accordi sul Cambiamento Climatico si sono conclusi con successo nei negoziati di COP 21 a Parigi (dicembre 2015) e di essi il patto tra Xi Jin Ping e Barack Obama è parte fondante.

In questi giorni è in corso a Marrakech (7-14 novembre) la COP 22 per consolidare i risultati. È facile prevedere tuttavia che Trump disattenda in parte, in linea al suo programma, gli impegni assunti da Obama - ridurre le emissioni di CO2 statunitensi del 26-28% al 2025 - soprattutto perché l’accordo non prevede sanzioni; è difficile invece immaginare la reazione della Cina, principale inquinatore tra i 200 Paesi firmatari.

Il rischio è che l’Europa si trovi ancora una volta isolata nel sostenere l’onere competitivo di impegni vincolanti assunti unilateralmente (una riduzione di CO2 dell’80% nel 2050 rispetto al 1990), già incorporati nella regolazione europea.

Gas e petrolio nella geopolitica di Trump
Il secondo elemento, in chiave geopolitica è la nuova configurazione dei rapporti tra Paesi produttori e Paesi consumatori di gas e petrolio attivata in questo decennio.

Un eccesso di offerta ha provocato la riduzione del prezzo del gas e il crollo del prezzo del petrolio (oggi quotato 43,5 $/barile, sotto il livello di guardia dei 50 $/barile), destinati a mantenersi bassi nel prossimo orizzonte temporale, poiché l’Opec non è in grado di approvare una politica di quote che limiti la produzione.

Incurante di ciò, Trump propone di autorizzare subito la costruzione del grande oleodotto Keystone XL dal Canada al Golfo del Messico, bloccato perché non conforme agli standard ambientali, per trasportare petrolio da esportare (830 mila barili/g di capacità).

Per il gas, invece, prevedere la politica che Trump imposterà sull’estero con il sostegno di un Congresso favorevole è complesso: è cruciale capire come si svilupperà il suo rapporto con Vladimir Putin.

Trump dovrà scegliere tra due opzioni scomode: privilegiare la via delle esportazioni (Gnl), favorendo così i produttori statunitensi con una riduzione dell’offerta interna di gas che fa lievitare i prezzi, ma scontentando Putin che dovrà fare i conti con la concorrenza Usa sul mercato europeo, suo principale mercato di sbocco; oppure porre vincoli alle esportazioni e concentrare l’offerta sul mercato interno, favorendo così la Russia, ma lasciando in sofferenza i produttori Usa.

L’alternativa sarebbe una spartizione del mercato globale tra i due principali giocatori, il Pacifico agli Stati Uniti e l’Europa alla Russia; ma i mercati reali sono complessi da governare.

L’indipendenza energetica Usa che favorisce Putin
Infine, l’indipendenza energetica Usa, obiettivo primario del programma, consolida la lontananza di Trump dai Paesi produttori del Medio Oriente (se si esclude un possibile rapporto diretto con Benjamin Nethanyau), per il controllo dei quali potrebbe affidare a Putin un ruolo primario.

In cambio potrà impegnarsi con Putin in una politica compiacente nei confronti dei gasdotti che connettono la Russia all’Europa e che sono ancora in stallo perché contrastano con le regole anti monopoliste europee e con la strategia dell’Energy Uniondi diversificazione delle rotte e delle fonti.

Questi furono fortemente osteggiati dall’amministrazione di Obama, insieme alla Commissione europea, perché volti ad aggirare l’Ucraina nella fornitura di gas russo all’Europa - Nord Stream 2 nel corridoio settentrionale e il Turkish Stream in quello meridionale, rinvigorito dal recente accordo tra Putin e Rcep Tayyp Erdogan sull’energia.

Accordi bilaterali sui gasdotti tra Russia e Paesi membri indeboliscono la Commissione nei confronti del principale monopolista, con il quale Mogherini e il commissario all’energia Maros Sefcovic hanno tentato di costruire un negoziato europeo, superando gli egoismi nazionali.

E Nord Stream2 rappresenta il vulnus peggiore per il nostro Paese e per l’Ue, in quanto concentrerebbe l’offerta del gas russo in Germania (110 mld m3 di capacità), rischiando di rendere superflua la produzione di gas dal Mediterraneo, che coinvolge Italia, Balcani e Paesi meridionali nelle forniture di gas all’Europa.

Per l’Europa il quadro non è dunque positivo in nessuno dei tre domini richiamati. E l’Italia? Il nostro Paese ha un ruolo da giocare, non solo rafforzando infrastrutture e rapporti storici e rinnovati con i Paesi della sponda meridionale del Mediterraneo, ma anche svolgendo una funzione attiva nei Balcani, dove le basi per la cooperazione energetica sono attive e promettenti.

Valeria Termini è Commissario dell’Autorità per l’Energia elettrica, il gas e il Sistema Idrico (Aeegsi); Vice Presidente del Council of European Energy Regulators (Ceer).

giovedì 6 ottobre 2016

Quelle Italo-Tedesca

Energia
Nord Stream 2: tra i due litiganti il terzo gode
Giovanna De Maio
25/09/2016
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Basta lezioni da Bruxelles, l’Italia ha già fatto i compiti a casa. La reazione italiana ai siparietti franco -tedeschi di Bratislava è chiara: Roma non è d’accordo su diversi dossier. Oltre alle politiche di austerity e alla gestione della crisi dei rifugiati, le divergenze coinvolgono anche il campo energetico.

In attesa del giudizio della Commissione europea continua laquerelle italo-tedesca sulla costruzione del gasdotto Nord Stream 2. A farne le spese, oltre alle relazioni bilaterali sono anche gli sforzi dell’Unione europea, Ue, di creare un approccio comune alla sicurezza energetica.

A seguito della bocciatura di South Stream, l’Italia si è fortemente opposta al progetto Nord Stream 2 - che inizialmente coinvolgeva quattro compagnie europee, di cui due tedesche e la russa Gazprom (che ne possiede il 50%), ma al momento gli accordi sono in via di ridefinizione - e ha accusato la Commissione europea di adottare standard diversi per Roma e Berlino.

Tuttavia a un’analisi più dettagliata dei fatti, sembra che in questa storia il gas sia solo il pretesto per una sfida più audace che l’Italia lancia non solo alla Germania, ma anche all’Ue e soprattutto a se stessa. E c’è chi, come la Russia, cerca di trarre vantaggio da questa lite. Mosca infatti mira a consolidare il suo ruolo di principale fornitore di gas naturale all’Europa.

Nord Stream 2: il “no” dell’Italia
L’Italia è il secondo importatore di gas naturale russo in Europa e transita attraverso il territorio ucraino. Il percorso di Nord Stream 2, al pari di Nord Stream 1 che è già operativo, bypassa l’Ucraina, la Repubblica ceca e slovacca per arrivare direttamente in Germania passando sotto il mar Baltico.

Se, come annunciato, Gazprom taglierà i rifornimenti all’Ucraina entro il 2019, la Germania diventerebbe il principale Paese di transito per le importazioni italiane di gas dalla Russia.

L’industria italiana perderebbe molto in termini di competitività, poiché sarebbe costretta a importare energia a un prezzo più alto (dovuto alle tariffe di transito e ai costi di realizzazione di nuove interconnessioni tra Germania e Italia) dal suo diretto concorrente. Inoltre, Nord Stream 2 sposterebbe al nord il fulcro dell’approvvigionamento energetico europeo, compromettendo il ruolo di hub energetico dell’Italia nel Mediterraneo.

Tuttavia, l’argomento principale con cui l’Italia si oppone a Nord Stream 2 riguarda la vicenda del gasdotto South Stream, bocciato dalla Commissione europea in ragione dell’incompatibilità con le direttive del Terzo pacchetto energetico.

L’Italia lamenta perdite economiche importanti e vorrebbe che a Nord Stream 2 fossero applicati i medesimi criteri che hanno portato alla cancellazione di South Stream. Da un’analisi più approfondita si capisce però che le ragioni economiche sono solo la punta dell’iceberg.

Quello che l’Italia contesta con forza sono l’applicazione di standard diversi per Roma e Berlino nell’Ue - dove i funzionari tedeschi occupano ruoli chiave – e un ruolo più incisivo all’interno dell’Unione.

L’ambivalenza tedesca
A giudicare dalla linea dura sulle sanzioni alla Russia, l’appoggio del governo tedesco a Nord Stream 2 potrebbe sembrare piuttosto fuori luogo perché apporterebbe grandi vantaggi alla Russia, ma priverebbe l’Ucraina dei ricavi sul transito del gas.

Per capire l’impatto della questione Nord Stream 2 in Germania è tuttavia necessario esplorare tre dimensioni: innanzitutto il rapporto con Mosca, che non è una questione pacifica per Berlino non solo a livello politico ma anche sociale; in secondo luogo le pressioni della comunità imprenditoriale tedesca, parte della quale vorrebbe riprendere a commerciare regolarmente con la Russia; infine un problema di carattere politico che investe le dinamiche infra-partitiche e mette in dubbio le scelte di politica europea, come si può notare dall’ascesa del partito euroscettico Alternativa per la Germania.

La cancelliera tedesca Angela Merkel non può semplicemente ignorare le istanze di importanti politici il cui contributo è decisivo nella coalizione di governo. Ha bisogno di mostrare flessibilità nei confronti della Russia, nonostante i danni potenziali che Nord Stream 2 apporterebbe all’indipendenza energetica europea.

Secondo alcuni esperti la cancelliera potrebbe lavorare dietro le quinte e incoraggiare la Commissione a rivedere la compatibilità di Nord Stream 2 con il terzo pacchetto energetico. Se la Commissione non accordasse a Nord Stream 2 le stesse deroghe previste per Nord Stream 1, la Merkel potrebbe evitare di intervenire in prima persona, facendo passare il tutto per una decisione più coerente con le scelte europee in generale.

La partita di Mosca 
Per Mosca, Nord Stream 2 è una partita importante perché le consentirebbe di raggiungere il mercato europeo eliminando i rischi legati al transito dei gasdotti in Ucraina, passaggio che da sempre crea scompiglio nella distribuzione e nei pagamenti.

La costruzione di questa consentirebbe a Gazprom di mantenere una posizione di privilegio e di maggiore competitività nelle forniture energetiche all’Europa a discapito del gas naturale liquefatto proveniente, tra gli altri, dagli Stati Uniti.

C’è però anche una questione di politica estera. Il progetto Nord Stream 2 semina zizzania e non c’è dubbio che esso possa influenzare negativamente la realizzazione di una politica energetica comune più coesa, come previsto delle linee guida dell’Unione energetica. Finora il piano sembra reggere: su Nord Stream 2 e nei rapporti con Mosca l’Italia e la Germania rifuggono la cooperazione e adottano strategie individuali.

Ancora più grave è la messa in discussione della credibilità delle istituzioni europee, in modo particolare della Commissione - di cui l’Italia critica il doppio standard - e la coerenza dell’azione esterna che si incrina periodicamente, a seconda delle esigenze politiche ed economiche dei singoli Paesi.

lunedì 22 agosto 2016

IL Clima e le relative politiche in Artide

Cambiamento climatico
Una politica europea integrata per l’Artico
Elena Cesca
12/08/2016
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Non solo terrorismo, minacce ibride, volatilità economica, crisi migratoria. Quella del cambiamento climatico, cui si associano questioni di sicurezza energetica e alimentare globale, rientra nelle priorità per le quali l’Unione europea, Ue, è disposta ed è in grado di fare la differenza.

A ribadirlo è l’esplicito riferimento nella European Global Strategy, dove il cambiamento climatico è descritto come un vero e proprio moltiplicatore della minaccia perché catalizzatore di carenze idriche, pandemie, flussi migratori.

Coerente con tale impostazione, il 27 aprile, attraverso la comunicazione “Una politica europea integrata per l’Artico”, l’Ue ha inteso apportare un nuovo contributo alla cooperazione internazionale per rispondere al cambiamento climatico, partendo proprio dalla regione che più velocemente risente del riscaldamento globale.

L’impegno Ue per l’Artico, dal 2008 ad oggi
L’esplicito impegno dell’Ue nella regione risale al 2008, con la Comunicazione della Commissione europea dal titolo “L’Unione europea e la regione artica”, attraverso la quale venivano evidenziati gli effetti dei cambiamenti climatici e delle attività antropogeniche nell’Artico, nonché individuati gli interessi e gli obiettivi strategici dell’Ue nella regione, principalmente: tutela dell’Artico di concerto con la sua popolazione; promozione dell’uso sostenibile delle risorse; contributo a una migliore governancemultilaterale.

L’Ue si faceva promotrice di una serie di risposte da avviare sistematicamente e in coordinamento agli stati artici, nella consapevolezza che la scarsità delle infrastrutture e le particolarità della regione aggraverebbero la difficoltà nelle gestione delle emergenze.

Nella comunicazione del 2008 le zone europee dell’Artico venivano considerate una “priorità della politica della dimensione settentrionale” e, più in generale, premessa la particolare vulnerabilità degli spazi marini e terrestri della regione ai cambiamenti climatici, si prefigurava il fatto che un’alterazione della dinamica geo-strategica dell’Artico avrebbe ripercussioni sugli interessi europei in materia di sicurezza e sulla vita delle prossime generazioni di cittadini europei.

Nella Comunicazione 2016, l’Unione esprime ora un proprio interesse strategico nel giocare un ruolo chiave nella regione. Interesse spiegato non solo dal fatto che, tra gli otto paesi artici, tre sono membri dell’Ue (Danimarca, Finlandia, Svezia) e due appartengono all’area economica europea e sono associati ad Horizon 2020 (Islanda e Norvegia), ma anche da una serie di attività che l’Ue conduce in diversi campi (da quello energetico a quello della ricerca e delle osservazioni spaziali), nonché dalle politiche adottate in settori (come quello della pesca e dei trasporti) che hanno un impatto sugli sviluppi economici nella regione.

La ricerca passa anche dallo Spazio
L’Artico, per le sue caratteristiche geologiche e geofisiche, offre, invero, opportunità senza paragoni per il progresso nella ricerca scientifica e tecnologica, insieme a quelle in termini occupazionali che ne discendono.

Sin dal 2008, l’importanza da attribuire alla prevenzione e all'attenuazione dell’impatto negativo dei cambiamenti climatici, nonché la priorità da assegnare alla conoscenza del territorio si sono concretizzati in 200 milioni di euro destinati alle attività di ricerca.

Al momento si prospetta che vengano mantenuti analoghi livelli di finanziamento per il programma H2020 (2014-2020), nel quale rientra anche il progetto Eu-Polar Net, il più grande consorzio mondiale di istituti di ricerca multidisciplinari dedito allo sviluppo di un programma di ricerca comunitario integrato che sia in grado di identificare esigenze scientifiche a breve e lungo termine, nonché atto, attraverso il più elevato grado di coordinamento nella ricerca trans-disciplinare e la più stretta cooperazione e lo scambio di informazioni chiave con i soggetti interessati a livello internazionale, allo studio di un quadro strategico per l’ottimizzazione dell’uso delle infrastrutture polari, prima fra tutte quelle di trasporto.

Opportunità che l’Ue sembra aver colto con successo coinvolgendo le attività che conduce nel settore spaziale. Un importante contributo alle attività di monitoraggio panartico delle condizioni atmosferiche, delle variabili climatiche, dello spessore del permafrost, e una migliore modellizzazione oceanografica arriva, infatti, dalla messa in opera di Galileo e dei “satelliti sentinella” nell’ambito del programma Gmes, arriverà anche dalle infrastrutture del programma Copernicus e sarà sostenuto dalla Commissione europea grazie all’attuazione di un sistema integrato di osservazione artica terrestre, un’infrastruttura di ricerca multidisciplinare e multinazionale distribuita geograficamente tra le isole Svalbard.

Sviluppo economico basato sull’uso sostenibile delle risorse
Garantire uno sviluppo economico basato sull’uso sostenibile delle risorse e sulle competenze ambientali è tra le 39 azioni volte allo sviluppo di una politica integrata per l’Artico. La Comunicazione del 2016 rientra coerentemente nel quadro dell’impegno europeo di tener conto delle specificità regionali in sé e nell'elaborazione della politica ambientale da una parte e marittima integrata dall’altra.

Nel primo caso, si consolida l’impegno dell’Unione nell’ambito della European Climate Change Programme (Eccp) in direzione della diminuzione del 40% delle emissioni totali di gas serra entro il 2030 e dell’80% entro il 2050.

Nel caso della navigazione e del trasporto marittimo, una politica europea per l’Artico ne è dichiaratamente complementare. Il ché rientra nell’ottica sia di valorizzazione delle eccellenze industriali europee nella cantieristica, trasporti navali e infrastrutture aeroportuali, sia di rafforzamento a livello multilaterale dell'autorità dell'Ue quale potenza marittima internazionale.

Ciò in connessione anche con la politica comunitaria generale in materia di relazioni esterne. In quest'ottica si inserisce il tentativo, ribadito nella recente Ess, di guidare l'integrazione della dimensione climatica nelle sedi multilaterali, e quello di colmare le lacune nell’attuale quadro di gestione internazionale degli oceani, dello sviluppo di una rete di zone marine protette, e lotta a sfide comuni più prettamente legate, quali la pesca Inn - illegale, non dichiarata e non regolamentata.

Se, dunque, l’obiettivo della European Global Strategy è quello di stimolare una riflessione aggiornata sull’arco di instabilità che insiste lungo e all’interno dei confini, l’Ue prende atto che le sfide strategiche sono quasi sempre asimmetriche e l’asimmetricità non si limita alle nozioni tradizionali di sicurezza.

In questo senso, è rilevante l’attenzione dedicata al tema del cambiamento climatico e alla vulnerabilità di una regione come quella artica, a dimostrazione del fatto che, in un tempo veloce e di reazioni rapide, la lungimiranza può ancora guidare le scelte strategiche.

Elena Cesca è PhD Candidate in Storia dell'Europa presso la Sapienza di Roma su tematiche di cooperazione tecnologico-militare in ambito Nato e collaboratore parlamentare presso la Camera dei Deputati. Ha svolto un tirocinio presso l'area Sicurezza e Difesa dello IAI.

sabato 9 luglio 2016

Sicurezza e Terrorismo: occorre cambiare

Sicurezza 
Aeroporti, i limiti del modello Ben Gurion
Sofia Zavagli
02/07/2016
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Ogni nuovo attacco terroristico svela nuove dinamiche, problematiche e invoca nuove pratiche per evitare ciò che è prevedibile, ma difficilmente arginabile. Dopo il fallito attentato Parigi-Miami del 2001, siamo costretti a toglierci le scarpe in aeroporto. Dal 2006, a seguito del fallito progetto di attentati sulle linee transatlantiche, i contenitori piú grandi di 100ml sono stati banditi. All’indomani della caduta del volo German Wings nel marzo 2015, ci si è resi conto che è stata proprio una norma post 11 Settembre ad impedire al secondo pilota di entrare nella cabina di pilotaggio chiusa dall’interno.

In seguito agli attentati di Parigi di novembre 2015, il Consiglio europeo ha approvato l’utilizzo del sistema Pnr (Passenger Name Record) per reati legati al terrorismo obbligando le compagnie aeree a consegnare ai paesi europei i dati dei passeggeri. Dopo gli ultimi attentati a Bruxelles a marzo invece, si è ricominciato a parlare della necessità di adottare il modello Ben Gurion negli aeroporti.

Analisi comportamentale
Il modello Ben Gurion, dal nome del fondatore dello stato d’Israele, è il sistema di sicurezza adottato nell’omonimo aeroporto di Tel Aviv. Tale sistema di sicurezza è composto da almeno sette strati che iniziano ancora prima di entrare in aeroporto: Ispezione del veicolo di arrivo; domande preliminari e attribuzione del codice di “pericolosità”; screening bagaglio; apertura bagaglio e test per rilevare traccia di esplosivi; check-in; controllo di sicurezza e controllo documenti. Gli ultimi tre step sono la norma nella maggior parte degli aeroporti internazionali. Israele si distingue per i passaggi 1-4 che avvengono ancora prima di effettuare il check-in.

Non tutti vengono sottoposti allo stesso trattamento. Il punto cardine del modello Ben Gurion è che si basa sull’osservazione delle persone e non sugli oggetti proibiti in aeroporto. L’aeroporto è costellato da personale addestrato in analisi comportamentale. Non esistono controlli casuali come negli aeroporti statunitensi. Le domande possono sembrare assolutamente insensate, ma servono a rilevare incongruenze e bugie.

Problematiche etiche e pratiche
La facilità o meno nel passare da uno strato all’altro è determinata da una vera e propria analisi del “profilo” di ogni passeggero, in primis determinata dall’appartenenza etnico/religiosa. Arabi, musulmani e poi giornalisti, cooperanti etc. sono sottoposti a tutti i passaggi e potrebbero addirittura incontrare screening aggiuntivi, interrogatori e perquisizioni corporali.

Al di là delle evidenti problematiche etiche, il modello dell’aeroporto di Tel Aviv, con 16 milioni di passeggeri nel 2015, è difficilmente applicabile ad altri aeroporti come ad esempio quello di Atlanta, il più trafficato degli Stati Uniti e del mondo, con 100 milioni di passeggeri nello stesso anno. Tel Aviv è un piccolo aeroporto se comparato ad altre capitali il cui sistema di sicurezza si concentra sul profilo razziale e contatto visivo.

Modello difficile da esportare
Per chi ha avuto la possibilità di risiedere in Israele per un tempo maggiore di una semplice vacanza, ciò che più colpisce di tale modello è che non è applicato solo agli aeroporti. Questo tipo di sistema, basato sulla iper-securizzazione e il racial profiling è rintracciabile in tutti i luoghi pubblici del Paese: stazioni ferroviarie e dei bus, centri commerciali, luoghi di svago. È uno stato mentale basato sulla paura costante di un attentato e che giustifica la violazione e/o sospensione dei diritti umani (privacy, libertà, movimento). Un tale modello è inapplicabile alle alle stazioni ferroviarie europee come proposto all’indomani dell’attentato sventato sul treno Thalys Amsterdam-Parigi.

I responsabili dell’attentato all’aeroporto di Bruxelles lo scorso marzo hanno detonato i giubbotti esplosivi prima di entrare nell’area check-in, di fatto spostando il rischio di un attacco al di fuori della tradizionale “zona rossa”. Il punto è esattamente questo: il modello Ben Gurion “funziona” proprio perché tutto il paese è organizzato come l’aeroporto di Tel Aviv ovvero come una permanente “zona rossa” fatta di controlli, check-points e una massiccia presenza di militari che non hanno pressoché alcuna limitazione etico-giuridica.

L’estensione della sicurezza aeroportuale agli spazi pubblici avrebbe un costo insormontabile. In termini finanziari, Israele spende 10 volte in più per passeggero per sicurezza aeroportuale rispetto agli Stati Uniti. E in termini psicologici, installare nella mente delle persone l’idea di non essere sicuri in nessun luogo e di aver bisogno di un orwelliano “Big Brother” è un prezzo altissimo che i cittadini israeliani pagheranno per sempre.

Sofia Zavagli è assistente di ricerca al Clingendael Institute e Fellow all’International Centre for Counter Terrorism (ICCT) all’Aia.

domenica 12 giugno 2016

venerdì 27 maggio 2016

Artico vi è partecipe

Energia e ambiente
Il prezzo del petrolio affonda, le petroliere no
Lorenzo Colantoni
19/05/2016
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Un ingorgo di quasi trenta supertankers di classe Vlcc, petroliere con capacità di carico superiore alle 200 mila tonnellate. Tutte ferme davanti al porto iracheno di Basra. 43 milioni di barili la capacità inutilizzata: poco meno della metà del consumo giornaliero mondiale all’inizio del 2016 secondo l'International energy agency.

Quanto è accaduto il 6 aprile svela quanto sta accadendo alle petroliere a causa dell’abbassamento del prezzo del petrolio. Tutto ciò ha conseguenze rilevanti sia per i Paesi che dipendono dal trasporto della risorsa, come l’Egitto, che soprattutto per l’ambiente.

Petroliere più numerose, più lente e più remunerative
Di tutto il settore petrolifero, i trasporti sono forse l’unica parte che ha beneficiato, e molto, dei bassi livelli di prezzo: il costo del bunker oil, il combustibile usato per le navi, è crollato di oltre il 200% in pochi mesi, come nel caso di Singapore, dove è sceso dai 400 dollari alla tonnellata di maggio 2015 ai 150 di marzo 2016.

Di conseguenza, per le petroliere il profitto è rimasto lo stesso, ma i costi sono precipitati. Senza contare che l’abbassamento dei prezzi ha aumentato la variabilità temporale e geografica della variazione di questi, rendendo per molti operatori più conveniente vendere il carico in viaggio o usare le petroliere per immagazzinarlo e rivenderlo nei momenti di rialzo.

Tutto questo ha reso le petroliere più numerose, più lente e, soprattutto, più remunerative. Nel settembre 2015 Bloomberg riportava un guadagno medio giornaliero di 28.375 dollari per le navi che circumnavigavano l’Africa, mentre il Wall Street Journal segnalava una diminuzione del 10% della velocità media a livello globale.

Il tutto è risultato in un boom degli ordini per le petroliere: 200 per il 2017 su una flotta globale di 2.000, di cui più del 40% di classe Vlcc. Una capacità da oltre 160 milioni di barili, un terzo del consumo italiano di petrolio all’anno.

Raddoppio del Canale di Suez, un fiasco?
Questa situazione ha anche avuto l’effetto di ridurre l’attrattività dei canali di transito, Suez in particolare. Panama è infatti meno interessato dalle rotte petrolifere e più da quelle per il trasporto del gas liquefatto, con costi inoltre significativamente inferiori per le navi in transito.

Passare per Suez, in particolare dopo l’allargamento, rappresenta invece un costo significativo: 465.000 dollari in media, ma che può raggiungere anche il milione.

Con una necessità sempre più bassa di accorciare i tempi, da ottobre 2015 a marzo 2016 115 navi cargo hanno preferito scegliere la rotta che passa per il Sud Africa, nonostante i 6.500 chilometri; secondo un report di Sea Intel riportato da Cnbc, si risparmia in media 235mila dollari a viaggio, fino a 19 milioni di dollari all’anno per alcune compagnie.

Quello che è guadagno per loro è però una perdita per l’Egitto, e pericolosa per un progetto, quello del raddoppiamento del Canale di Suez, già criticato da molti per essere stata una scelta dettata forse più da esigenze di grandeur politica del governo egiziano, che da ragioni economiche.

Non ha caso Mohab Mamish, viceammiraglio a capo dell’Autorità del Canale, ha prontamente risposto al report di SeaIntel, sostenendo che le navi in transito sono aumentate del 2% rispetto al 2014.

Peccato che la performance del Canale sia ancora molto deludente, meno 5% di cargo e un fatturato di 4,5 miliardi di dollari nel 2015, molto lontano dagli almeno 13 miliardi che il presidente Abdel Fattah al-Sisi sostiene si raggiungeranno nel 2023. E il cambio di rotte delle petroliere non fa che aggiungere pressione alla già precaria situazione egiziana.

Pollution haven
L’Egitto non è l’unico a subire le conseguenze negative di questi nuovi trend dei trasporti marittimi, perché e soprattutto l’ambiente è colpito. L’allungamento delle distanze e del periodo trascorso in mare incrementa le emissioni: sempre secondo SeaIntel, la rotta sudafricana porta ad emettere in media 6.800 tonnellate di CO2 in più per viaggio rispetto al passaggio nel Canale di Suez.

Non bisogna poi dimenticare l’impatto totale delle emissioni marittime, fortemente sottostimato e poco conosciuto: 938 milioni nel 2012 secondo l’International Maritime Organization, 3% di quelle mondiali, ma i dati sono poco disponibili e non completamente affidabili.

Nel 2008 il Guardian riportava una fuga di notizie secondo cui il valore era già 1,12 miliardi di tonnellate, quasi tre volte le stime ufficiali dell’Intergovernmental panel on climate change. Dati secondo i quali le quindici navi più grandi al mondo avrebbero emesso più di tutte le macchine della terra messe insieme.

In tutto questo non è chiaro cosa accadrà in futuro: da una parte c’è il rallentamento degli ordini di navi e il leggero aumento dei prezzi del petrolio, dall’altra il fallimento dell’accordo Opec per alzare il prezzo del petrolio, che ne impedirà una rapida risalita, e l’espansione della flotta mondiale al 2017 già confermata.

Gli ingorghi di petroliere negli oceani potrebbero quindi ripetersi, anche frequentemente. In un settore in cui la riduzione delle emissioni è estremamente limitata e spesso inesistente, in cui l’internazionalità del traffico marittimo ne aumenta l’immunità alla regolamentazione ambientale e in cui l’utilizzo di combustibili alternativi, come il gas, è ancora molto limitato, tutto questo rischia di potenziare un già pericoloso pollution haven, un paradiso per l’inquinamento. E su cui l’unico controllo ammesso sarà quello del mercato.

Lorenzo Colantoni è Junior Fellow presso loIAI –Twitter@colanlo.
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venerdì 6 maggio 2016

UNa strategia Globale

Difesa e industria europea
European Defence Action Plan: un passo avanti 
Alessandro Ungaro
06/12/2016
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L’European Defence Action Plan (Edap), l’atteso piano d’azione in materia di difesa è stato infine presentato. Le 19 pagine del documento scritto dalla Commissione costituiscono il suo contributo agli sforzi europei e dei singoli Stati membri a rafforzare le capacità di difesa e di sicurezza dell’Unione, questa volta però da una prospettiva industriale e di rafforzamento del mercato interno.

Le iniziative messe in campo dal documento firmato il 30 novembre vanno comunque contestualizzate con la Global Strategy on Foreign and Security Policy dell’Ue e con il suo Implementation Plan, presentati dall’Alto Rappresentante al Consiglio Affari Esteri e Difesa a metà novembre.

Complessivamente il documento presenta alcune novità forse inattese e introduce una serie di aspetti che meritano di essere verificati con attenzione nei prossimi mesi, durante i quali si procederà alla sua vera e propria “execution”.

Ricerca europea per la difesa 
Prende vita il cosiddetto European Defence Fund, composto da due “finestre” complementari, ma distinte in termini gestionali, giuridici e finanziari. Il coordinamento tra le due verrà affidato ad un coordination boardcostituito da rappresentanti della Commissione, dell’Alto Rappresentante, degli Stati membri, dell’Eda e, quando necessario, anche dell’industria. 

mercoledì 27 aprile 2016

Nord Stream 2, il gasdotto che aggira l’Ucraina

Energia

Marco Granato
18/04/2016
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Nord Stream 2 (NS2) è un gasdotto, attualmente in progetto, che collegherà Russia e Germania. Seguirà lo stesso percorso di Nord Stream, perciò può essere considerato un suo potenziamento.

Nord Stream è composto da due linee, ciascuna con una capacità di trasporto di 27,5 miliardi di metri cubi l’anno; NS2 dovrebbe avere la stessa capacità, per un totale complessivo di 110 miliardi di metri cubi annui previsti per il 2019, quando i contratti tra Gazprom e Ucraina si estingueranno.

Il 50% delle azioni di NS2 sarà di Gazprom, mentre i gruppi Basf, E.ON (tedeschi), Shell (anglo-olandese), OMV (austriaco) ed Engie (francese) ne possiederanno il 10% ciascuno.

La Russia punta a potenziare Nord Stream per aggirare l’Ucraina, che, nonostante il conflitto in corso, rimane il principale snodo dei traffici di gas tra Russia ed Europa.

Inoltre, il recente andamento del prezzo del petrolio spinge la Russia a esportare più gas naturale; le forniture di Gazprom verso l’Europa sono andate infatti crescendo negli ultimi anni nonostante lo stallo nei consumi europei e, secondo le aspettative della compagnia, dovrebbero toccare i 160 miliardi di metri cubi nel 2016.

Tra le possibili cause, anche la decisione del Consiglio di Stato olandese, che ha posto un limite massimo di 27 miliardi di metri cubi di gas alla produzione del giacimento di Groningen, contro i 33 estratti nel 2015, a causa di eventi sismici collegati alle attività di estrazione. Di conseguenza, i maggiori importatori di gas olandese (Germania, Belgio, Lussemburgo, Regno Unito e Francia) dovranno rivolgersi ad altri fornitori.

Germania in prima linea, a est il fronte del no
A trarre il massimo vantaggio da NS2 sarà indubbiamente la Germania, che diventerà il principale punto di arrivo del gas russo in Europa, assicurandosi un vantaggio competitivo sul prezzo e aumentando la propria importanza strategica nella partita energetica.

D’altra parte, tale progetto ha messo l’esecutivo guidato da Angela Merkel in cattiva luce dinanzi a vari governi europei. Infatti, benché la cancelliera abbia sottolineato che il progetto è portato avanti da imprese private, l’odierna posizione della Germania stride con le pressioni che questa fece sui partner europei affinché tenessero una linea dura verso Mosca, a costo di sacrificare i loro interessi economici in favore di quelli comunitari: gli stessi che, ora, il progetto NS2 sembra calpestare.

Queste tensioni si aggiungono a precedenti divergenze tra la “linea tedesca” e quella di altri paesi dell’Ue, in particolare sull’austerity e la gestione dei flussi di migranti.

Tra i paesi più determinati a contrastare NS2 si annoverano Slovacchia, Polonia ed i paesi Baltici. La Slovacchia, attualmente snodo importante nel flusso di gas verso l’Europa occidentale, vedrebbe diminuire la sua valenza strategica, mentre i Baltici e la Polonia, antirussi, diffidano di un avvicinamento di Russia e Germania.

A loro vantaggio vi sono delle controversie circa il rispetto dei regolamenti Ue sull’energia. In particolare, l’articolo 9 della terza direttiva sul gas, relativo all’unbundling, stabilisce che il gestore del gasdotto non sia autorizzato a esercitare, direttamente o indirettamente, un controllo su un’impresa che svolge l’attività di fornitura del gas trasportato. In altre parole, Gazprom non potrebbe essere sia il proprietario del gasdotto che fornitore di gas, dovendo inoltre garantire a terzi l’acceso al gasdotto stesso.

Opportunità per l’Italia
Il progetto NS2 potrebbe rappresentare una buona opportunità per l’Italia, nello specifico per l’italiana Saipem, partecipata da Eni e dal Fondo strategico italiano. Impegnata nella progettazione e nella realizzazione di Nord Stream e di altri gasdotti quali Blue Stream e Greenstream, Saipem avrebbe dovuto partecipare alla costruzione di South Stream, l’altra condotta proposta da Gazprom per aggirare l’Ucraina passando attraverso il Mar Nero.

Nonostante questo possibile coinvolgimento nella realizzazione di NS2, l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, ha dichiarato che il Cane a sei zampe non acquisterà azioni di NS2, escludendo anche che la russa Rosneft possa rilevare quote importanti di Saipem, contrariamente a quanto suggerito da alcune voci.

La possibilità che l’Italia possa divenire uno snodo meridionale dei rifornimenti di gas all’Europa, apparentemente accantonata con la sospensione del progetto South Stream, potrebbe tuttavia ripresentarsi.

Recenti dichiarazioni da parte di Gazprom mostrano infatti che potrebbe essere costruito un gasdotto per collegare Russia ed Italia. Per realizzare il progetto, Gazprom è pronta a cooperare con la greca Depa, visto che il gasdotto passerebbe attraverso il territorio greco, e con l’italiana Edison, con le quali nelle scorse settimane Mosca ha siglato un Memorandum of Understanding.

Gazprom ha identificato il potenziale di questi due partner, già coinvolti nel progetto europeo Itgi, attualmente completato solo nel suo segmento turco-greco, ma che potrebbe essere esteso sino all’Italia grazie alla condotta IGI Poseidon.

Washington sta a guardare
Anche gli Stati Uniti hanno un approccio tiepido nei confronti di NS2. Al di là delle questioni prettamente energetiche, l’intensificarsi di legami tra Russia ed Europa è qualcosa che la politica estera statunitense ha sempre cercato di evitare negli ultimi decenni.

Tuttavia, gli attriti che il progetto NS2 sta causando tra i paesi europei potrebbero essere sfruttati dagli Stati Uniti per avere una maggiore influenza sugli stati dell’Europa orientale, i più ostili a NS2 e, contemporaneamente, i più preoccupati dalla militarizzazione della Russia, dunque favorevoli ad una maggiore presenza della Nato nell’area.

Nel caso in cui gli Stati Uniti non entrassero direttamente nella questione NS2, sarebbe più facile per Russia e Germania completare il progetto; d’altra parte l’Italia - al pari di altri paesi impegnati in progetti con Mosca - potrebbe essere avvantaggiata dalla temporanea assenza dell’azione antirussa di Washington nel settore energetico europeo.

Marco Granato, Laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso l’Università di Trieste, studia Relazioni Internazionali presso l’Università di Perugia. Si interessa di sicurezza energetica in ambito internazionale.
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lunedì 18 aprile 2016

.Minacce ibride, l’Ue presenta la sua strategia

Europa e terrore

Enzo Maria Le Fevre Cervini, Alberto Aspidi
18/04/2016
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Il Consiglio Affari Esteri del 18-19 aprile discute, tra gli altri argomenti, il Quadro comune per il contrasto delle minacce ibride.

In particolare, i ministri degli Esteri dei 28 devono fare i conti con la necessità di un’azione rapida per il contrasto e la prevenzione delle minacce ibride, poste da attori statali e non statali contro l’Unione, i suoi Stati membri e gli Stati partner.

Sebbene la definizione di minaccia ibrida sia quella di una minaccia “mutevole e necessariamente flessibile”, la Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento, pubblicata lo scorso 6 aprile, descrive tali minacce come la “combinazione di attività coercitive e sovversive, metodi convenzionali e non (siano essi diplomatici, militari, economici, tecnologici), che possono essere utilizzate in modo coordinato da attori statali e non statali al fine di ottenere obiettivi specifici, restando però al di sotto della soglia della guerra formalmente dichiarata”.

La sfida di dover andare oltre le definizioni 
La definizione di minaccia ibrida - o, meglio, il riconoscimento dell'assenza di essa - è il primo punto degno di nota della Comunicazione. Si aggiunge la mancanza di qualsiasi esempio concreto.

Eppure, il ritorno del concetto di hybrid warfare nei documenti strategici " che contano" è avvenuto, ad opera soprattutto della Nato, proprio a fronte delle azioni di attori ben definiti: la Russia di Putin, nel contesto della crisi ucraina, e l’attività di destabilizzazione, all’interno come all’esterno degli stati membri, da parte del Daesh o di individui ad esso legati.

Negli ultimi mesi, all’interno dell’Unione, l’attività di propaganda e proselitismo tesa a radicalizzare individui e le azioni terroristiche, a cui il Daesh viene più o meno direttamente associato, sono le minacce ibride per eccellenza.

La struttura e gli obiettivi della Comunicazione ne risentono: molte delle azioni proposte sono concepite pensando alla prevenzione ed alla risposta ad un attacco terroristico.

Ciò non deve tuttavia distrarre dal fine ultimo del documento, che è di carattere strategico e guarda al medio-lungo periodo. La questione non è da chi provengano le minacce. L'assunto di fondo è piuttosto che attacchi ibridi potrebbero arrivare in qualsiasi momento da nuovi attori, statali e non, nel prossimo futuro.

Definire un quadro comune e coordinato per la prevenzione e la risposta a questi eventi, indipendentemente dalla provenienza e dal "nemico", è l'obiettivo della Comunicazione.

L’Hybrid Fusion Cell e la raccolta d’informazioni
In questo quadro, quali le proposte specifiche di maggior rilievo? Qui una preliminare precisazione è d'obbligo: la Comunicazione è un documento che la Commissione adotta per esprimere una propria posizione su questioni di attualità, stimolando gli Stati membri al dibattito. Di conseguenza, saranno gli Stati membri, che sono e restano gli unici responsabili in materia di sicurezza e difesa, a decidere a quali tra le azioni proposte dare un seguito.

Due sono le proposte avanzate che possono ritenersi di particolare interesse e valore innovativo a livello istituzionale.

La prima è l'istituzione di una Hybrid Fusion Cell presso l'Intelligence and Situation Center del Servizio europeo di azione esterna. La proposta, voluta dall'Alto rappresentante Federica Mogherini, è ambiziosa: essa mira a catalizzare attorno ad uno stesso obiettivo la raccolta di informazioni dell’intelligence per prevenire e rispondere alle minacce ibride, sfruttando le strutture e le capacità dell'Unione e quelle dei singoli stati membri.

La stessa Mogherini, alcuni giorni fa, durante la plenaria del Parlamento europeo, ha affermato che “in un mondo di prevedibili imprevedibilità, il sistema internazionale non necessità di conservatorismo, ma di cambiamento”. Il cambiamento prevede maggiore collaborazione a livello regionale, così come auspicato anche nel Piano d'azione per prevenire l'estremismo violento promosso dal Segretario generale delle Nazioni Unite all’inizio del 2016.

Realizzare tale progetto non sarà semplice, almeno per due ordini di motivi. Il primo è la varietà degli attori interni all'Unione coinvolti: tra loro le istituzioni incaricate del crisis management esterno, della pianificazione strategica (lo Stato Maggiore europeo e il Crisis Management and Planning Directorate - Cmpd), la DG Echo, in carica per le attività di affari umanitari e protezione civile, l'unità gestione crisi di DG Home, e poi ancora, le DG Move ed Energy, in caso di minacce di attacchi ad infrastrutture critiche.

Il piano B: un Centro di eccellenza
Altra questione riguarda la riluttanza degli Stati membri, specie dei “grandi”, a condividere informazioni classificate riguardanti materie di sicurezza nazionale. La Commissione sembra prefigurarsi tale evenienza già nella Comunicazione, proponendo un possibile “piano B”: la ripresa del modello Centro di Eccellenza che dovrebbe avere l’obiettivo di far progredire la ricerca e promuovere l'individuazione di soluzioni pratiche alle sfide attuali poste da minacce ibride.

Questo modello di collaborazione tra attori istituzionali, organi e agenzie interni all'Unione, stati terzi, organizzazioni internazionali e soggetti esterni (privati, aziende, università) è già presente sia in ambito Nato che in ambito Ue, dove particolare successo ha riscosso nel settore della difesa chimica, biologica, radiologica e nucleare (Cbrn).

Sua caratteristica principale è l'approccio bottom-up e di carattere volontario: sono gli attori coinvolti (stati in primis) che identificano le priorità di azione ed i progetti da perseguire: l'Unione fornisce il proprio supporto, eventualmente le proprie risorse, ma non "dirige" il processo.

Un approccio che, in un settore delicato come la sicurezza in generale e la gestione delle minacce ibride in particolare, non può non essere guardato con favore da Stati membri "gelosi" ma consapevoli che un'azione comune maggiormente efficace è necessaria, specie dopo gli eventi di Parigi e Bruxelles.

In definitiva, si può certamente dire che, con la Comunicazione, il processo di riflessione strategica dell’Unione europea sul contrasto alle minacce ibride è iniziato. Tuttavia, il destino concreto di queste proposte e l'effettiva realizzazione di esse, primo test circa l'esistenza di una volontà politica di dare seguito alle proposte in oggetto, resta saldamente nelle mani degli Stati.

Enzo Maria Le Fevre Cervini è Direttore per la Ricerca e Cooperazione presso il Budapest Centre for the International Prevention of Genocide and Mass Atrocities e docente di diritto internazionale e diplomazia presso la Luiss Guido Carli.
Alberto Aspidi è cultore della materia presso la cattedra di diritto internazionale alla Luiss Guido Carli e Assistente di ricerca presso il Budapest Centre for the International Prevention of Genocide and Mass Atrocities
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mercoledì 13 aprile 2016

Notizie dall'ISAG

Rivista “Geopolitica”:


L’India è oggi considerata un attore di primo livello nel contesto asiatico e potenzialmente una delle future potenze a livello globale. Molteplici aspetti, dalla demografia alle capacità militari, dagli indicatori economici all’importanza del paese in ambito multilaterale rappresentano i punti di forza di questo Stato. Tuttavia, la percezione dell’India in ambito globale è allo stesso...

IsAG nei media:



I Report dell’IsAG:


No. 74 – April 2016 Authors: Phil Kelly, Murad Jalilov Language: English Keywords: Balancing Demography Encirclement Geopolitics Islamic State (ISIS) Kurds Download (PDF) / Scarica (PDF) Abstract The focus rests upon Turkey’s contemporary geopolitics amidst the country’s increasing instability and its outlying regional challenges. A geopolitical description is provided of the ambiguities and conflicting pressures...

No. 73 – March 2016 Author: Simona Bottoni Language: Spanish Keywords: Political dialogue Italy – Latin America Business dialogue Italy – Latin America IILA Italian Conference – Latin America and Caribbean Interparliamentary Forum Italy – Latin America and Caribbean Geopolitical balance in Latin America Download (PDF) / Scarica (PDF) Abstract Italy has always had a...

No. 72 – March 2016 Authors: Claudia Candelmo, Antonella Roberta La Fortezza Language: Italian Keywords: UNIFIL II ITALBATT Israeli-Lebanese Wars Italian model Download (PDF) / Scarica (PDF) Abstract Well before 2006, when UNIFIL II was established through UN Security Council Resolution 1701, Italy has been engaged in Lebanon, bringing its contribution to end the hostilities...

Geopolitica Online:



IsAG TV:


Il 24 e 25 febbraio si è tenuto ad Astana il secondo Incontro dei partecipanti internazionali ad EXPO 2017. Alessandro Lundini, Ricercatore Associato del Programma Eurasia dell’IsAG, ha seguito il meeting nella capitale kazaka in qualità di inviato per l’Istituto. La città – ha affermato – si prepara ad ospitare l’evento in un clima di...

Quaderni di Geopolitica:

La Repubblica del Kazakhstan non è soltanto lo Stato più esteso dell’Asia centrale ma anche uno dei Paesi dell’ex URSS che meglio ha saputo ricostruire un’identità e una fisionomia propri nel corso di poco più di vent’anni di indipendenza. L’economia di questo Paese, popolato da una ricca pluralità di gruppi etnici e religiosi, va ben...
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domenica 28 febbraio 2016

Difesa Europea: l'Artico ignorato

Unione europea
Difesa Ue, una luce fuori dal tunnel
Alessandro Ungaro
28/03/2016
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Il 2016 rappresenta indubbiamente una tappa fondamentale per la sicurezza e difesa dell’Unione europea, Ue, per la sua identità, la sua proiezione esterna, il suo pensiero strategico ancora in fieri.

Gli archi di crisi che ormai circondano il Vecchio Continente, l’instabilità diffusa nel vicinato europeo, la gestione dei profughi e dei flussi migratori, il terrorismo internazionale e le tendenze espansionistiche russe (e non solo) mettono a dura prova la tenuta dell’Ue.

Al tempo stesso però, come spesso accade, esse possono rivelarsi un’occasione per rimescolare le carte in tavola e immaginare nuove forme di cooperazione forse più efficaci, solide e politicamente più sostenibili. Inoltre, anche il referendum sull’eventuale uscita della Gran Bretagna dall’Ue, il cosiddetto Brexit, rappresenta comunque un momento chiarificatore anche sulle prospettive dell’integrazione nel campo della sicurezza e difesa.

Agenda della difesa 2016 
Il 2016 si è già in parte contraddistinto - e lo sarà ancora di più nei prossimi mesi - per alcune importanti iniziative attinenti il campo della sicurezza e difesa: alcune vedranno la loro conclusione nel corso di quest’anno, mentre altre dovrebbero prendere il via durante il secondo semestre.

Certamente atteso è il documento sull’European Union Global Strategy (Eugs) che sarà presentato dall’Alto Rappresentante Federica Mogherini al Consiglio europeo di giugno.

In autunno la Commissione presenterà al Parlamento un rapporto sull’applicazione delle due Direttive approvate nel 2009 sugli acquisti pubblici di prodotti per la difesa e la sicurezza (2009/81) e sui trasferimenti intra-comunitari di equipaggiamenti militari (2009/43).

Nel frattempo però, già a febbraio il Group of Personalities on the Preparatory Action for CSDP-Related Research, nominato dalla Commissione, ha presentato il suo Report sull’European Defence Research.

In prospettiva, vi dovrebbe essere la preparazione di una Defence Strategy basata sull’Eugs e dell’European Defence Action Plan da parte della Commissione, realizzato in collaborazione con l’Agenzia Europea di Difesa (European Defence Agency, EDA). Infine, la già citata Preparatory Action avrà la necessità di una definizione più accurata e strutturata affinché prenda avvio nel corso del 2017per finanziare in modo sperimentale alcuni progetti di ricerca nel campo della difesa.

Una nuova Europa tecnologicamente avanzata
A prescindere dalle modalità che l’Ue intenderà adottare per affrontare le molteplici sfide che l’attendono, il comparto industriale ad alta tecnologia può svolgere un ruolo determinante per contribuire ad una migliore e più efficace politica di sicurezza e difesa del continente europeo.

A questo proposito, il convegno organizzato dall’Istituto affari Internazionali il prossimo 4 aprile cercherà di fornire il proprio contributo a individuare le iniziative che a livello europeo debbono essere considerate prioritarie e che, in tandem con quelle dei singoli stati membri, possono rilanciare il tema di un’Europa più sicura e difesa.

Non bisogna infatti dimenticare che detenere e gestire un vantaggio tecnologico è un elemento fondamentale di ogni politica di deterrenza così come di ogni intervento volto ad assicurare la stabilità internazionale e contrastare ogni minaccia alla sicurezza e alla convivenza.

Ogni eventuale azione di tipo militare o di sicurezza in senso lato poggia sulla necessità di un rafforzamento delle capacità tecnologiche e industriali europee volte a garantire un livello minimo di autonomia strategica dell’Europa, affinché essa possa muoversi e decidere liberamente, forte delle sua capacità, all’interno dello scenario internazionale di sicurezza.

Inoltre, la crescente facilità e velocità dei trasferimenti tecnologici accrescono sempre più l’esigenza di garantire continuità ed intensità all’innovazione tecnologica sia a livello di prodotti che di processi per evitare di perdere il vantaggio tecnologico acquisito faticosamente negli anni.

Se da un lato, infatti, l’Europa sta rapidamente erodendo il patrimonio tecnologico militare accumulato negli scorsi decenni, dall’altro la dualità delle tecnologie avanzate e l’interazione col crescente settore della sicurezza avvalorano sempre di più il ruolo del settore della difesa nello sviluppo di una nuova Europa tecnologicamente avanzata.

Ostacoli da superare
Questa prospettiva però è tuttora ostacolata dalle insufficienti risorse a disposizione dell’innovazione tecnologica, dalla mancanza di una vera dimensione europea, dall’assenza di un mercato continentale integrato in grado di attenuare una controproducente concorrenza intra-europea e, soprattutto, dall’assenza di nuovi programmi di collaborazione intergovernativa di rilievo.

La strada da percorrere è ancora lunga, impegnativa e irta di ostacoli. Forse però, dopo decenni, si intravede la luce fuori dal tunnel.

Alessandro R. Ungaro è ricercatore del Programma Sicurezza e Difesa dello IAI (Twitter: @AleRUnga).
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venerdì 5 febbraio 2016

I Fondali dell'Antartico

I fondali dell'Antartide
 sono un mondo che non ti aspetti:
 intervista ai palombari 
della Marina Militare"

giovedì 21 gennaio 2016

Finlandia: il fallimento del contratto sociale

Scandinavia
Finlandia, la Grecia del nord?
Gianfranco Nitti
12/01/2016
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L’europea più lenta a crescere. Secondo una recente analisi previsionale da parte della Banca di Finlandia, nel 2016 Helsinki crescerà dello 0,7 %. Secondo la banca centrale, la competitività dei costi è la chiave di volta per rianimare le esportazioni, ma la crescita economica globale non sembra idonea a fornire una seria e sostenuta spinta per le industrie esportatrici finniche.

La politica del quantitative easing della Banca centrale europea, Bce, potrebbe coinvolgere la Finlandia, con un leggero incremento in investimenti di capitale nel corso del 2016 e portando la crescita del 2017 a un punto percentuale.

Fallimento del contratto sociale finlandese
La banca ha inoltre, espresso sostegno alle misure di austerità previste dal governo e alle riforme dei servizi sociali e sanitari.

"Al fine di invertire la tendenza alla crescita del debito pubblico, dovranno essere fatti, su un ampio fronte, tagli di spesa" afferma il governatore della banca Erkki Liikanen in un comunicato. "Se non si adottano misure di risanamento, coloro che ora sono giovani dovranno non solo pagare la maggior parte delle pensioni e dei servizi sanitari e di assistenza dei baby-boomers, ma anche sanare i debiti delle precedenti generazioni".

A sua volta, la banca Nordea prevede che l'economia finlandese crescerà ancor meno nel 2016, di un magro 0,5%, e solo dello 0,7 % nel 2017. Secondo questa banca, la curva di crescita della Finlandia è diversa, in senso negativo, da quella di molte altre economie occidentali.

Gli analisti di Nordea affermano che il fallimento del cosiddetto 'contratto sociale', tentato dal governo di centro-destra finlandese per ridurre il costo del lavoro, potrebbe avere un effetto negativo sulla crescita del Paese nel caso in cui un'ondata di scioperi derivanti dal deterioramento delle relazioni industriali ne scaturisse.

"Le importazioni non cresceranno a causa del nostro problema di competitività e degli aspetti strutturali nelle industrie di esportazione. Anche i consumi rimarranno deboli", ha detto l'economista di Nordea, Pasi Sorjunen. A meno che il Paese attui riforme strutturali che promuovano la crescita, le divergenze tra la Finlandia e il resto dell'Occidente permarranno.

Futuro non raggiante 
Il Ministero delle Finanze osserva una crescita economica complessiva per l’anno appena conclusosi di solo 0,2%, con una previsione per il 2016 di un 1,2-4%. Le prospettive per il 2017 non sono migliori, visto che l’attività economica è trainata principalmente dalla domanda interna piuttosto che dal commercio estero.

Tuttavia il debito delle famiglie continuerà ad aumentare mentre le prospettive di risparmio continueranno a ridursi. La disoccupazione, che nel 2016 dovrebbe raggiungere il 9,4 %, dovrebbe iniziare a rallentare nel 2017.

Peraltro, l’ultimo dato su base mensile del novembre 2015 indica che il tasso si attestava all’ 8,2%. L'inflazione, il prossimo anno, si attesterebbe a poco meno dell’ 1% d’incremento, risalendo leggermente dalle pressioni deflazionistiche di quest'anno, che hanno visto i prezzi scendere. Il rapporto debito pubblico-Pil è anch'esso destinato a salire al 66,6 % nel 2017, contro una stima del 64,9 % nel 2016.

Tasso di disoccupazione e tendenza dello stesso tasso per 2005/2011-2015/11, fascia di età 15-74
Fonte: www.stat.fi.

Negli ultimi tempi, i media internazionali fanno apparire la Finlandia come la ‘Grecia del Nord’, in connessione alle sue difficili prestazioni economiche, mettendo queste ultime in nesso causale con l’adozione dell’euro, unico Paese scandinavo ad averlo introdotto. La buona salute economica della vicina Svezia, che è fuori da Eurolandia, viene usata a sostegno di questa tesi e alimenta una posizione anti-euro da parte di una crescente fetta dell’opinione pubblica locale.

Euro causa di tutti i mali?
Tuttavia, addossare all’euro una responsabilità che si potrebbe riferire ad un miscuglio complesso di fattori diversi, sembra abbastanza semplicistico. Non possono non essere presi in considerazione influenze esterne quali, per esempio, la cessione a Microsoft di un’industria trainante quale Nokia, ma anche l’impatto sull’interscambio commerciale Russia-Finlandia causato dalle sanzioni imposte dall’Ue nel 2014 alla Russia per quanto successo in Ucraina. Nel 2014, la Russia era infatti il terzo principale partner commerciale del Paese baltico꞉sono oltre 600 le imprese finlandesi attive in Russia e circa un centinaio quelle che vi fanno investimenti diretti.

Anche se il futuro non è raggiante, è utile ricordare che nel recente passato, il Paese ha già attraversato cicli economici negativi che hanno poi stimolato innovazione e sviluppo dinamici e la nascita di vigorose realtà industriali.

Non per niente la Finlandia, diversamente dalla Grecia e dall’Italia, raggiunge sempre i vertici delle varie classifiche internazionali riferite a settori e ambiti variegati: dalla scuola, alla competitività, all’innovazione tecnologica, al tasso di corruzione, al livello di etica civica, alla qualità della vita e dei servizi pubblici.

Gianfranco Nitti è giornalista, corrispondente di mass media finlandesi dall’Italia.
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lunedì 4 gennaio 2016

Spazio: IL CUORE BIANCO DI PLUTONE


La sonda spaziale New Horizons, l’ggetto più veloce costruito dall’uomo ha raggiunto il 14 settembre 2015 Plutone.Per almeno mezzora, alla distanza minima di 12.500 chilometri  la sonda ha raccolto dati ed immagini del miserioso painetasulla cui identità ci soo ancora molti aspetti poco conosciuti A cinque miliardi di chilometri dalla terrala sonda ha “telefonato” a casa confermando l’avvenuto contatto scatenando l’entusiamo degli scienziati della NASA. La sonda ha sorvolato Plutone in corrispondenza della misteriosa macchia bianca forma di cuore. In vrtù della rotazione del pianeta la macchia si è rivolta verso la sonda permettendo la sua completa visione. (9)

Massimo Coltrinari