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sabato 9 luglio 2016

Sicurezza e Terrorismo: occorre cambiare

Sicurezza 
Aeroporti, i limiti del modello Ben Gurion
Sofia Zavagli
02/07/2016
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Ogni nuovo attacco terroristico svela nuove dinamiche, problematiche e invoca nuove pratiche per evitare ciò che è prevedibile, ma difficilmente arginabile. Dopo il fallito attentato Parigi-Miami del 2001, siamo costretti a toglierci le scarpe in aeroporto. Dal 2006, a seguito del fallito progetto di attentati sulle linee transatlantiche, i contenitori piú grandi di 100ml sono stati banditi. All’indomani della caduta del volo German Wings nel marzo 2015, ci si è resi conto che è stata proprio una norma post 11 Settembre ad impedire al secondo pilota di entrare nella cabina di pilotaggio chiusa dall’interno.

In seguito agli attentati di Parigi di novembre 2015, il Consiglio europeo ha approvato l’utilizzo del sistema Pnr (Passenger Name Record) per reati legati al terrorismo obbligando le compagnie aeree a consegnare ai paesi europei i dati dei passeggeri. Dopo gli ultimi attentati a Bruxelles a marzo invece, si è ricominciato a parlare della necessità di adottare il modello Ben Gurion negli aeroporti.

Analisi comportamentale
Il modello Ben Gurion, dal nome del fondatore dello stato d’Israele, è il sistema di sicurezza adottato nell’omonimo aeroporto di Tel Aviv. Tale sistema di sicurezza è composto da almeno sette strati che iniziano ancora prima di entrare in aeroporto: Ispezione del veicolo di arrivo; domande preliminari e attribuzione del codice di “pericolosità”; screening bagaglio; apertura bagaglio e test per rilevare traccia di esplosivi; check-in; controllo di sicurezza e controllo documenti. Gli ultimi tre step sono la norma nella maggior parte degli aeroporti internazionali. Israele si distingue per i passaggi 1-4 che avvengono ancora prima di effettuare il check-in.

Non tutti vengono sottoposti allo stesso trattamento. Il punto cardine del modello Ben Gurion è che si basa sull’osservazione delle persone e non sugli oggetti proibiti in aeroporto. L’aeroporto è costellato da personale addestrato in analisi comportamentale. Non esistono controlli casuali come negli aeroporti statunitensi. Le domande possono sembrare assolutamente insensate, ma servono a rilevare incongruenze e bugie.

Problematiche etiche e pratiche
La facilità o meno nel passare da uno strato all’altro è determinata da una vera e propria analisi del “profilo” di ogni passeggero, in primis determinata dall’appartenenza etnico/religiosa. Arabi, musulmani e poi giornalisti, cooperanti etc. sono sottoposti a tutti i passaggi e potrebbero addirittura incontrare screening aggiuntivi, interrogatori e perquisizioni corporali.

Al di là delle evidenti problematiche etiche, il modello dell’aeroporto di Tel Aviv, con 16 milioni di passeggeri nel 2015, è difficilmente applicabile ad altri aeroporti come ad esempio quello di Atlanta, il più trafficato degli Stati Uniti e del mondo, con 100 milioni di passeggeri nello stesso anno. Tel Aviv è un piccolo aeroporto se comparato ad altre capitali il cui sistema di sicurezza si concentra sul profilo razziale e contatto visivo.

Modello difficile da esportare
Per chi ha avuto la possibilità di risiedere in Israele per un tempo maggiore di una semplice vacanza, ciò che più colpisce di tale modello è che non è applicato solo agli aeroporti. Questo tipo di sistema, basato sulla iper-securizzazione e il racial profiling è rintracciabile in tutti i luoghi pubblici del Paese: stazioni ferroviarie e dei bus, centri commerciali, luoghi di svago. È uno stato mentale basato sulla paura costante di un attentato e che giustifica la violazione e/o sospensione dei diritti umani (privacy, libertà, movimento). Un tale modello è inapplicabile alle alle stazioni ferroviarie europee come proposto all’indomani dell’attentato sventato sul treno Thalys Amsterdam-Parigi.

I responsabili dell’attentato all’aeroporto di Bruxelles lo scorso marzo hanno detonato i giubbotti esplosivi prima di entrare nell’area check-in, di fatto spostando il rischio di un attacco al di fuori della tradizionale “zona rossa”. Il punto è esattamente questo: il modello Ben Gurion “funziona” proprio perché tutto il paese è organizzato come l’aeroporto di Tel Aviv ovvero come una permanente “zona rossa” fatta di controlli, check-points e una massiccia presenza di militari che non hanno pressoché alcuna limitazione etico-giuridica.

L’estensione della sicurezza aeroportuale agli spazi pubblici avrebbe un costo insormontabile. In termini finanziari, Israele spende 10 volte in più per passeggero per sicurezza aeroportuale rispetto agli Stati Uniti. E in termini psicologici, installare nella mente delle persone l’idea di non essere sicuri in nessun luogo e di aver bisogno di un orwelliano “Big Brother” è un prezzo altissimo che i cittadini israeliani pagheranno per sempre.

Sofia Zavagli è assistente di ricerca al Clingendael Institute e Fellow all’International Centre for Counter Terrorism (ICCT) all’Aia.

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